L'incontro di Zuckerberg con i conservatori è un test sul valore assoluto della neutralità
New York. Quelli di Facebook amano definire il social network una “infrastruttura” della rete, termine che suggerisce la resilienza di uno strumento che non sarà soppiantato dalla prossima trovata della Silicon Valley. E’ lo scheletro della nostra vita digitale, non si può togliere tanto facilmente. La parola “infrastruttura” ha anche il vantaggio di essere neutrale, o almeno di presentarsi come tale: è un connettore senza contenuti, un ponte che veicola messaggi scelti dagli utenti, non vi dico cosa pensare e dire ma vi metto nelle condizioni di condividerlo. Parlando costantemente di “apertura” e “connessione”, gli unici valori assoluti che l’azienda ammette, Mark Zuckerberg insegue un idolo moderno, la neutralità: “Facebook vuole dare a ciascuno una voce”. Ci sono biblioteche intere sulla neutralità – vera o presunta – del liberalismo, che si presenta come sistema senza contenuti, ideologia a-ideologica, vuota e infrastrutturale, che regola senza invadenze la società pluralista.
Facebook ambisce a interpretare lo stesso ideale. Per questo è importante l’incontro che ieri Zuckerberg ha avuto con una quindicina di rappresentanti del mondo conservatore. Nella sede di Menlo Park si sono presentati, fra gli altri, l’ex portavoce di Bush, Dana Perino, il presidente dell’Heritage Foundation, Jim DeMint, Arthur Brooks dell’American Enterprise Institute, l’opinionista S. E. Cupp, lo stratega digitale Zac Moffat e soprattutto Barry Bennett, consigliere di Donald Trump. Il sito Breitbart ha rifiutato l’invito, dicendo che Facebook continua a oscurare i suoi articoli sull’immigrazione. Il motivo dell’incontro è noto. Gizmodo ha accusato il social network di truccare il feed delle notizie trending per penalizzare e nascondere quelle curvate in senso conservatore; un senatore repubblicano, John Thune, ha chiesto spiegazioni, si è insinuato il sospetto di un “bias” liberal, l’azienda ha ordinato un’inchiesta interna che non ha trovato vizi ma solo asettici algoritmi che fanno il loro mestiere matematico senza guardare in faccia a nessuno. A un livello superficiale, Zuckerberg tende la mano agli ambasciatori conservatori per il motivo riassunto dall’analista Patrick Moorhead: “Sarebbe devastante se gli utenti conservatori abbandonassero la piattaforma perché sentono un pregiudizio nei loro confronti”.
Non può permettersi di perdere una fetta di pubblico monetizzabile, e il rischio val bene un incontro in cui senz’altro ha promesso di vigilare con rinnovato vigore sui contenuti sensibili per i conservatori. Più in profondità, però, si tratta di un test di neutralità rispetto al mondo della politica che ragiona in termini ideologici. Zuckerberg non è estraneo all’impegno civile, ma le cause in cui è impegnato – l’immigrazione, ad esempio – sono vestite di neutralità: la policy è l’immigrazione, ma il valore sottostante è una generica “apertura”. “Crediamo che il mondo sia un posto migliore quando persone con diversi background e idee hanno tutte il potere di condividere i loro pensieri e le loro esperienze”, ha scritto Zuck quando è scoppiato il caso. Il rischio non è appena rivelare che la cultura aziendale di Facebook riflette idee più progressiste che conservatrici (l’acqua calda), ma doversi districare negli inghippi moderni della neutralità, spiegando in modo convincente a un gruppo di conservatori certamente pieni di domande che Facebook non è certo la fucina ideologica di cui gli amici cospirazionisti di Trump blaterano, è soltanto un’infrastruttura.
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