Aggredire i giornali nel nome della libertà di stampa. I casi di Thiel, Zuckerberg e Bezos

New York. Peter Thiel foraggia un esercito di avvocati per colpire e possibilmente affondare un sito pruriginoso e ficcanaso che lo ha trattato male in passato. Mark Zuckerberg viene accusato di taroccare gli algoritmi per nascondere le notizie di taglio conservatore nei feed di Facebook, e intanto censura “accidentalmente” Mirko Volpi per aver scritto parole sconvenienti come [omissis]. Jeff Bezos con il suo Washington Post dichiara guerra totale a Donald Trump, accusandolo di non esser trasparente e di censurare i giornalisti: “Viviamo in una democrazia dotata di una fantastica libertà di espressione. Un candidato alla presidenza dovrebbe accettarlo”. Ma i giornalisti del New York Times che lo scorso anno hanno indagato la cultura aziendale che domina Amazon hanno trovato un’opacità molto simile a quella che Bezos rimprovera a Trump. L’amministratore delegato aveva anche rifiutato di farsi intervistare. A parole, la libertà di parola piace a tutti. Soprattutto ai magnati della Silicon Valley, che monetizzano le parole in libertà di un mondo che ha molto da condividere anche quando non ha nulla da dire. La realtà poi si complica, i princìpi si piegano e succede che il miliardario da cui la stampa libera ha tradizionalmente cercato di proteggersi diventi una specie di giustiziere occulto che separa il giornalismo legittimo da quello calunniatore e fangoso e dispone di misure legali adatte alla distruzione del secondo mentre pubblicamente esalta il primo. Con quale criterio, esattamente, si separino le categorie non è chiaro, forse lo stabilisce un algoritmo, sperando che lungo la strada non censuri “accidentalmente” qualcosa.

 

In America, dove la magistratura militante non è in combutta con la stampa politicizzata – il primo esempio che viene in mente di questa alleanza è naturalmente il Bhutan – le leggi e la giurisprudenza sono sempre stati inclini a proteggere gli organi d’informazione dalle attenzioni ostili dei miliardari, anche quelli che fanno chiudere giornali nel nome della libertà di stampa, che è un bel paradosso. Una sentenza della Corte suprema del 1964, in un caso che coinvolgeva il New York Times, incarna lo spirito di protezione della libera informazione. Il potente diffamato, si dice, può riscuotere danni soltanto se si dimostra che la falsità sia stata messa in giro con “effettiva malizia, cioè che la coscienza che fosse falsa oppure con incosciente disprezzo del fatto che fosse vera o falsa”. Si può discutere se il sito Gawker, ora finito in vendita, abbia agito con “effettiva malizia” quando ha scritto che Thiel è gay oppure quando ha pubblicato un sex tape con Hulk Hogan come protagonista; di certo la potenza di fuoco degli avvocati pagati da Thiel qualcosa come dieci milioni di dollari qualche ruolo l’ha avuto. Ma a differenza di una disputa “normale” fra un potente arrabbiato e un giornale a caccia di scoop nella zona grigia fra il gossip e la notizia, qui l’aggressore è un paladino della trasparenza. E paladini sono anche i suoi cugini della Silicon Valley che hanno stabilito un rapporto tutto particolare con l’informazione, chi diventando un player attivo e chi limitandosi, si fa per dire, a filtrare.