La legge salva Hillary, ma le sue bugie dovrebbero scandalizzare gli adoratori dell'onestà. E invece
New York. Hillary Clinton e il suo team non hanno distrutto intenzionalmente delle email con informazioni secretate, non hanno occultato volontariamente messaggi pericolosi, non hanno tentato di nascondere la polvere sotto il tappeto, e dunque il capo dell’Fbi dice che “nessun procuratore ragionevole” aprirebbe un fascicolo su un pasticcio informatico e protocollare che conteiene diverse negligenze ma nessuna traccia di dolo. E va bene. La cosa si complica, però, se si considera che l’irrilevanza penale della faccenda s’accompagna a una verità sostanziale: per tutto questo tempo Hillary ha mentito. Non voleva violare nessuna legge, ha spiegato il direttore dell’Fbi, James Comey, ma dato che la versione di Hillary e quella del Bureau non coincidono, se ne deve dedurre che le spiegazioni fornite dall’ex segretario di stato contenevano pesanti e deliberati aggiustamenti.
Nei mesi estenuanti di argomentazioni e controargomentazioni circa l’utilizzo privato di email di rilevanza pubblica, quando il tormentone è diventato uno spettacolo noioso, Hillary si è difesa dicendo che non ha mai trafficato sul suo account con informazioni che erano segrete al tempo degli scambi; semmai sono state secretate soltanto dopo che il segretario di stato le aveva inviate. Prima falsità. L’Fbi ha trovato 110 messaggi che contenevano segreti di stato, alcuni classificati come “top secret”, e nessuno di questi è stato elevato al livello della segretezza dopo essere transitato dalla scrivania della Clinton che si pronuncia ignara ma ignara non era. La seconda falsità riguarda il famoso BlackBerry. Usava un account personale, diceva Hillary, per avere tutti i messaggi, di lavoro e non, su un unico device, ma gli apparecchi su cui sono transitate informazioni gestite in modo “estremamente sbadato” sono più di uno. Quanta sbadataggine. Infine – terza falsità – alcune email ricevute da Hillary erano esplicitamente marcate come “classified”, cosa che lei ha negato, per rafforzare la tesi della sua ignoranza. In questo tempo di ossessioni per la trasparenza e moralismi a profusione, dove l’onestà è il vitello d’oro a cui tutti si devono prostrare, tempi in cui Tony Blair viene messo alla gogna in retrospettiva per aver mentito sulla guerra in Iraq, mentre nemmeno il rapporto Chilcot sostiene che avesse volontariamente occultato o falsato i dati che aveva a disposizione, l’apparato menzognero messo in scena da Clinton per schermarsi preventivamente da accuse che peraltro non si sono poi materializzate in un’inchiesta dovrebbe lacerare le anime belle, garanti della moralità del pubblico ufficiale di turno. E un po’ le lacera, visto che nemmeno il New York Times è riuscito a trattenersi dal vergare un editoriale dove mette il dito nelle contraddizioni – quelle sì dolose – di Hillary; ma è una lacerazione soltanto parziale, immediatamente rimarginata dalla considerazione che l’alternativa a tutto questo è Donald Trump, e allora si può passare sopra a qualche bugia del segretario di stato che sbadatamente esponeva informazioni top secret agli attacchi di agenti ostili e poi ha negato di aver mai fatto quello che il direttore dell’Fbi ha invece confermato. Il tribunale delle leggi assolve Hillary, che gode pure del favore del ben più zelante tribunale della morale, il quale di rado tollera la menzogna pubblica per favorire un interesse personale. Evidentemente la famiglia Clinton ha un particolare talento per quest’arte.
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