La seconda fase della rivoluzione politica di Bernie Sanders inciampa su un ostacolo generazionale
Roma. Nell’epoca delle congiure interne e delle lotte fratricide, un tempo in cui i partiti odiano ferocemente i propri candidati, i quali con acrimonia ricambiano, l’esperimento di Bernie Sanders aveva l’aria di una travolgente eccezione. La rivoluzione politica di Bernie è fallita, in senso stretto, sotto i colpi imparabili di Hillary, ma allargando a una visione più ampia delle cose, il suo popolo giovane e barricadiero veleggiava gagliardo verso un ruolo correntizio eppure rilevante nell’arco democratico. Come un sol millennial, i ragazzi di Bernie si muovevano compatti per continuare, da posizioni di minoranza, la battaglia intrapresa dal loro canuto eroe per sottrarre ai ricchi il maltolto e redistibuirlo ai poveri. Con i copricapi di Robin Hood e i cartelli contro l’odiato Tpp, l’accordo di libero scambio nell’area pacifica che Hillary contrasta con dubbia convinzione, il popolo di Bernie ha mostrato con pervicacia il suo dissenso alla convention democratica di Philadelphia, salvo poi obbedire – con qualche inevitabile riserva – al suo capitano che ha tracciato la via di una partecipazione responsabile al dibattito democratico. Il tutto per spostare un po’ più in là l’agenda moderata di Hillary, la vestale di Wall Street che si ricicla nei panni della portabandiera della lotta alle disegueglianze.
Anche la ridotta dei giovani rivoluzionari, però, è friabile. Ieri è stata annunciata la formazione del gruppo politico “Our Revolution”, l’etichetta sotto la quale Bernie vuole portare avanti il suo progetto politico, ma poco prima del lancio c’è stata una rivolta da parte dello staff, con dissapori, litigi e dimissioni di massa. La sommossa è tanto ideologica quanto generazionale. I più ardenti sandersisti si lamentano dello status di organizzazione non profit che Bernie e il manager della campagna elettorale, Jeff Weaver, vogliono dare alla struttura. Quella particolare forma permette di ricevere, a regime fiscale agevolato, quei finanziamenti illimitati che sono il fulcro dell’odio sandersista. La democrazia presa in ostaggio dai plutocrati è il totem polemico su cui poggia l’intero discorso del senatore del Vermont, e agli occhi dei discepoli più puri l’ultimo passo verso la rivoluzione ha l’aria di un tradimento. Claire Sandberg, direttrice organizzativa di “Our Revolution”, si è dimessa perché era “allarmata dal fatto che Jeff potesse gestire malamente questa organizzazione così come ha gestito malamente la campagna”. Weaver, navigatore di lungo corso della comunicazione politica e vecchio insider in un movimento popolato di giovani antisistema, è stato addirituttra accusato di “tradire i princìpi fondamentali della nostra iniziativa accettando soldi dai miliardari, rinunciando a essere finanziato dalla base”.
Questione di medium
Una delle accuse principali che la corrente polemica muove a Weaver è quella di avere investito troppo negli spot elettorali televisivi, togliendo fiato e risorse alle iniziative digitali che dovrebbero essere l’anima di una campagna tirata avanti a forza di donazioni da 27 dollari di media, provenienti da tasche giovani e per lo più sguarnite. Questione di medium e di sostanza per il più generazionale dei candidati, capace di suscitare passioni progressisti fra i millennial preventivamente bollati come agnostici della politica, corpi elettorali esausti e pressoché impossibili da scaldare. Weaver, il matusa che vuole impossesarsi con mezzi antichi della rivoluzione sadersista, dice che “Our Revolution” “darà potere a un’ondata di candidati progressisti a novembre e ci permetterà di vincere le battaglie più importanti che ci aspettano”, ma i ragazzi di Sanders hanno già subodorato un’aria di smobilitazione dalle postazioni nelle barricate. La loro rivoluzione s’è presa un raffreddore.
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