Fallimento e risalita, dannazione e redenzione: ecco l'esperienza umana dei ventenni newyorchesi
Con l’ormai leggendaria serie Humans of New York, Brandon Stanton ci ha mostrato i volti intensi e drammatici dei newyorchesi che si battono ogni giorno nella spietata giungla metropolitana. Sono storie di fallimento e risalita, dannazione e redenzione, sofferenza e ristoro, un variopinto spaccato dell’esperienza umana da leggere attraverso le mirabolanti promesse e le altrettanto mirabolanti delusioni che New York propone. Con Millennials of New York Connor Toole e Alec Macdonald ci offrono ventenni che fanno selfie con cani vestiti di flanella che mangiano tofu al bancone di un birrificio artigianale mentre si costruiscono una carriera da designer indipendenti sostenuta dal conto in banca dei genitori. Amano la vita autentica, questi giovani creativi, e “non c’è niente di meglio che lavorare all’aria aperta: il sole nei capelli, l’erba fra le dita dei piedi, la totale impossibilità di vedere qualsiasi cosa sullo schermo. E’ perfetto”.
La domanda con cui si alzano la mattina è: “Passerà la L?”, la linea che porta a Williamsburg, il quartier generale degli hipster. La L sarà chiusa per 18 mesi a partire da gennaio 2019 per un’opera di ristrutturazione necessaria dopo l’uragano Sandy di quattro anni fa, e questo apre una voragine esistenziale in un’intera generazione, stretta fra la scelta di una nuova linea di riferimento e l’accettazione dell’autobus come mezzo di trasporto legittimo. Ma non sarà troppo inquinante?, si domandano allarmati i millennial di New York. La serie social dei due comici che in questi giorni è apparsa in forma di libro era l’inevitabile evoluzione ironica per una generazione-frattale definita dal prefisso “meta”: i millennial sono allo stesso tempo gli animatori della Silicon Valley e i creatori della serie televisiva che li prende in giro, sono i padroni della ultrahipster Portland e i fan di Portlandia, bevono birre con tanto luppolo e mentre sorseggiano s’atteggiano scherzosamente a sommelier, percependo l’assurdità del prendersi sul serio.
Lo stesso succede con gli umani di New York. Stanton, il fotografo che ha inventato la mitica serie sugli “humans”, è un millennial, e il suo racconto si rivolgeva essenzialmente alla sua generazione. Parla il linguaggio della contemporaneità, ma forse non aveva messo in conto che la contemporaneità parla anche il suo diletto “meta”, il suo doppio ironico, e come in due specchi che si guardano, le immagini si moltiplicano all’infinito: si può, forse si deve, fare ironia anche sull’idea dell’ironia, attività descritta nella mistica espressione: “Dude, that’s so meta!”. In Millennials of New York s’incontra la ragazza preoccupata per l’incredibile crescita degli affitti in città, cosa che presto non le permetterà di soddisfare i suoi bisogni elementari, come il brunch domenicale, la SoulCycle, le spese di manutenzione della macchina per fare il margarita, oppure il ragazzo che si proclama femminista e vorrebbe tanto vedere una donna alla Casa Bianca —purché non sia grassa. Si trovano consumati artisti del “Netflix-and-chill”, feticisti del cocktail biologico e tecnici del gingham. Ci si imbatte infine nella giovane finalmente sicura di sé dopo gli anni della sfiducia, della fragilità, del precariato: ora non ha più paura di chiedere a suo padre i soldi per l’affitto.
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