Vasco Brondi (Riccardo Frabotta, via Flikr)

Le Luci della Centrale Elettrica, che ha traghettato il subconscio di una generazione

Il “nostro Vasco”, colonna sonora delle nostre contraddizioni intenibili

New York. Molti avevano nelle orecchie Vasco Rossi, noi avevamo Vasco Brondi. Non è snobismo, è un dato di fatto generazionale e anche geografico per chi faceva parte di una gioventù che allora amava concepirsi come alternativa, anche se quando Le Luci della Centrale Elettrica è apparso (chi usava il plurale si squalificava dalla conversazione) l’aggettivo “alternativo” era giù di moda. Era più alternativo non dirselo nemmeno. I Julie’s Haircut scrivevano “I hate indie rock” sulle magliette che portavamo in modo ironico e per qualche ragione, tendenzialmente sbagliata, in Emilia non ho mai avuto la percezione che appartenere a “quel” mondo fosse un fatto minoritario, roba d’essai.

 

Forse avevamo un invincibile complesso di superiorità, non so. Comunque fosse, loro avevano il loro Vasco, noi il nostro. Lo ascoltavamo mentre sfidavamo la nebbia per andare verso il Rifugio degli Artisti, a Dosso di Cento, che allora ci sembrava esotico con la sua atmosfera fiumana e il proprietario eccentrico, una specie di eremita russo influenzato dall’estetica fascista. Si guidava nottetempo negli assurdi tornanti della bassa (è tutto pianeggiante, le curve seguono i confini dei poderi, roba seria) all’inseguimento di gruppi talmente locali e indipendenti che l’idea stessa di fare un disco veniva accolta dai più puri di noi con il sospetto di una pericolosa operazione commerciale. Scorrazzavamo dal Fuori Orario al Corallo, dall’Estragon all’Acquaragia, dal Vox all’Off. Si andava al teatro Dadà di Castelfranco Emilia a sentire Moltheni, cioè Umberto Maria Giardini, che fra pochi intimi chiudeva con infinita amarezza il tour di un disco inarrivabile, Fiducia nel nulla migliore, andato tragicamente male. La nostra Emilia post tondelliana traboccava di stranezze locali che in qualche modo gridavano la necessità di conservare e difendere, e lo gridavano a noi debosciati che facevamo festa nelle stalle occupate fuori Modena e che avevamo già piantata nella testa l’idea dell’Erasmus.

 

Grondanti di moralismo civico emiliano, facevamo a scuola le simulazioni del Parlamento europeo, con le mozioni e tutto, e poi andavamo in piazza a manifestare contro la globalizzazione. Scrivevamo sul diario frasi in inglese e poi prima della maturità andavamo a sotterrare una bottiglia di Lambrusco in un campo, per poi recuperarla a esame finito, perché così voleva la tradizione a San Felice sul Panaro. Vivevamo una contraddizione intenibile, a nostra insaputa. Canzoni da spiaggia deturpata, l’esordio formale del nostro Vasco, è stato il disco che, senza voler esagerare con la psicanalisi, ha portato questa contraddizione a livello della coscienza, facendoci notare che provenire da certi luoghi – in senso lato – e avere certi riferimenti non era come non averli, e scusate la tautologia. Le Luci ha fatto scoprire alla nostra generazione che la colonna sonora del nostro subconscio erano i Cccp, che conoscevamo Giorgio Canali e Massimo Zamboni anche se non sapevamo chi erano, che in fondo agli occhi avevamo le fotografie di Luigi Ghirri anche se non le avevamo viste, che Tondelli ci aveva plasmati più di Guccini, anche se non lo avevamo letto. Brondi è stato il nostro traghettatore. Anche chi non amava Le Luci conosceva il verso “e invidiare le ciminiere perché hanno sempre da fumare”.

 

Personalmente non ero un devoto. Venivo da suoni metallici ed elettrici, il poco spazio mentale che avevo per le cose acustiche e cantautorali era occupato dai Marta sui Tubi, ma riconoscevo allora un valore enorme nel suo lavoro e lo riconosco ancora oggi a giudicare da Terra, il disco che sta portando in tour ora e che giustamente è stato magnificato da molti recensori (gli altri ci hanno annoiato con la pallosissima solfa sulla svolta mainstream, le collaborazioni con Jovanotti eccetera). Sono ancora aperte in questo disco le domande su identità, iperconnessione, rapporti umani e globalizzazione. C’è una feroce ironia nella collocazione della (bella) mezza pagina che il Corriere gli ha dedicato ieri: è preceduta da tre pagine sulla “lentezza liquida” e la “saudade padana” del Delta del Po, eufemismi vagamente poetici per annunciare l’apertura di un outlet a Occhiobello. Bruno Contini, amministratore della società che gestisce il progetto, in un’intervista lo definisce “il primo hub di retailtainment di nuova generazione”. Sembra un verso di Brondi, quello che ascoltavo dieci anni fa immerso nell’incertezza della mia generazione che cresceva e ascolto oggi che la globalizzazione è mio figlio che salta sul letto e con la cantilena modenese mi chiede: “Can you play ‘Nel profondo Veneto’?”