Così i neonati senza genere diventano cavie sociali
L’imposizione del genere neutro ai “theybies”, strumenti di emancipazione per genitori che vogliono fare la rivoluzione
Un giorno Bobby McCullough, futuro padre di Flatbush, area in rapidissima gentrificazione di Brooklyn, è rimasto folgorato dalla notizia che i genitori di un neonato canadese erano riusciti a ottenere dallo stato una tessera sanitaria che non specificava il genere del bambino. Era stato il feed di Facebook a suggerirgli l’articolo. Bobby era affascinato in modo piuttosto generico all’idea di tirare su un figlio senza alcuna identità di genere, ma l’inebriante prospettiva della possibilità di farlo per davvero ha riscaldato un desiderio tiepido. Come molti suggerimenti dell’algoritmo di Facebook, anche quello faceva leva su convinzioni presenti, elementi veri ma in qualche modo sopiti.
Assieme alla compagna, Lesley, aveva scoperto il genere della creatura attorno al quinto mese di gravidanza, come succede di norma a chi intende saperlo anzitempo, e altrettanto normalmente i futuri genitori avevano fatto sapere alla famiglia e agli amici se avrebbero avuto un bambino o una bambina. Incappare in quella notizia venuta dal paradiso del progressismo, il Canada, ha fatto accarezzare a Bobby la possibilità di rimediare alla leggerezza commessa e di crescere il figlio senza stereotipi di genere, libero dalla costruzione sociale – inevitabilmente patriarcale – che ha asservito il mondo alla limitante logica binaria. Ha dragato la rete alla ricerca di aiuto e lo ha trovato in un gruppo di genitori su Facebook che educano theybies, ovvero bambini anatomicamente definiti ma genderisticamente incerti, aperti alle fluide possibilità che la vita presenterà loro, e dunque definiti dal pronome neutro they/them. Un conto è il sesso, puro accidente fisico, un altro è il genere. La prima regola dei genitori di theybies è non rivelare mai il sesso del bambino; la seconda regola è non rivelare mai il sesso del bambino. Bisogna vietare ai nonni di aiutarli a fare pipì o fare loro il bagnetto, tagliare i capelli in modo ambiguo, essere dreativi con la paletta dei colori nel guardaroba, rigorosi nell’adottare, e nell’imporre agli altri, i pronomi neutri. Bobby era estasiato: “C’è un modo di essere genitori che si accorda perfettamente con il nostro sistema di valori!”, ha raccontato al New York Magazine, che ha dedicato un lungo servizio ai theybies e ai loro genitori, che vogliono fare una rivoluzione, un pronome alla volta. Nel giro di qualche giorno ha convinto la compagna a imbarcarsi nell’impresa di crescere un theyby, hanno scritto agli amici di dimenticarsi del sesso che avevano precedentemente comunicato, li hanno istruiti a non comprare regali con indicazioni di genere (“il dono più bello che potete farci è allenarvi con i pronomi”), hanno dato indicazioni a medici e ostetriche di non esclamare il proverbiale it’s a boy! o it’s a girl! in sala parto, hanno trovato un ospedale che ha acconsentito a emettere un certificato di nascita senza genere e hanno tentato di far digerire la notizia ai loro genitori. In nome dell’autodeterminazione, il vitello d’oro del mondo contemporaneo, hanno deciso di abbandonare costrizioni binarie e convenzioni, dai colori alle bambole e ai soldatini, e hanno combattuto con la mentalità retrograda di certi insegnanti ancora convinti che la natura abbia un qualche ruolo nella formazione dell’identità sessuale di una persona.
Il loro scopo non è creare un individuo genderless che si vestirà per sempre di beige come in un asilo svedese, ma creare condizioni di sviluppo eque perché il bambino/a un giorno possa identificarsi come meglio crede. I genitori di theybies hanno imparato la lezione dal movimento transgender e ora trasformano i figli in strumenti di emancipazione: “Il nostro bambino/a sarà ciò che vuole. Manderemo in giro per il mondo uno/a che non proietta o impone le sue opinioni e stereotipi sugli altri. Sono felice che mio figlio/a diventi uno veicolo sul quale altri genitori possono salire per accelerare i cambiamenti che stanno avvenendo”. E pazienza se il piccolo/a Zoomer, punto di riferimento di Instagram per i genitori di theybies quando vede i genitori degli amici dice “mamma” e “papà”. Il padre pazientemente gli spiega che quello ha in effetti la barba come papà, ma questo non fa di lui un padre. Zoomer cocciutamente persevera nell’errore, ma i parenti non demordono, convinti che per decostruire il male della divisione in generi occorra imporre la legge della neutralità.
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