Paul Ryan è uscito dal gruppo
Per non scrivere “weekend dad” sul suo infelice curriculum, il repubblicano lascia il suo seggio al Congresso
Quando Paul Ryan è stato eletto per la prima volta al Congresso, i suoi figli non erano ancora nati. Quando è diventato Speaker della Camera, la più grande aveva tredici anni. Dall’inizio della sua carriera politica, la famiglia è rimasta nel Wisconsin, dove la famiglia Ryan vive da cinque generazioni e dove c’è la sua constituency, che con impeccabile puntualità gli ha rinnovato la fiducia ogni due anni. Appena sbrigati gli obblighi settimanali a Washington, il deputato faceva ritorno nella sua Heimat. “Adesso i nostri tre figli sono tutti teenager, e una cosa che ho imparato dei teenager è che per loro il weekend ideale non necessariamente prevede di passare tutto il loro tempo con i genitori. Mi sono reso conto che rimango qui ancora per un mandato, i miei figli mi avranno conosciuto soltanto come un weekend dad”, ha detto ieri, annunciando che non si presenterà alle elezioni di novembre. Di norma, nessuno crede ai politici che adducono motivazioni personali per giustificare scelte o necessità di carriera, e la notizia tutt’altro che inattesa di Ryan non fa eccezione.
Il conservatore più talentuoso della sua generazione, il ragazzo appassionato di numeri che nel cassetto aveva il sogno di dirigere l’elettrizzante commissione che scrive le leggi di bilancio, si è ritrovato di fronte a circostanze più grandi di lui, impossibili da eludere e impossibili da sovrastare. La fallimentare corsa per la vicepresidenza al seguito di Mitt Romney, candidato che è riuscito nell’impresa di soccombere di fronte a un candidato sderenato dalla crisi e dalle sue presunzioni messianiche; poi il ruolo di Speaker, che fra tutte le cariche prestigiose della politica americana è quella più ingrata e meno fruttuosa, uno strano incrocio fra un cerimoniere e una maestra d’asilo che infatti è immancabilmente destinato a non aspirare a null’altro se non a un’uscita decorosa dalla scena politica. Gli speaker durano poco e non diventano presidenti. Ryan ha accettato obtorto collo, per spirito di servizio, il martelletto abbandonato da John Boehner, sapendo bene le regole del gioco.
Poi alla Casa Bianca è arrivato Trump, che è quanto di più lontano si possa immaginare dalla passione civile, dal liberismo cristallino, dalla fede conservatrice gravida di positività e bei valori di una volta che Ryan incarna. In campagna elettorale aveva fatto quello che aveva potuto per scongiurare Trump, ma si sa in questa congiuntura storica che fine fanno i moderati piani riformisti che offrono soluzioni posate contro l’arrembare di populismo, sovranismi e politiche identitarie. Delle battaglie di Ryan sono rimaste visioni scaricabili in pdf che nessuno ha mai letto. Incastrato nel ruolo impossibile di mediatore fra correnti repubblicane in guerra permanente e di broker fra la Casa Bianca e il Congresso, Ryan ha avuto l’abilità di non soffocare. Ha intessuto e disfatto la tela mille volte, si è tappato le orecchie e si è turato il naso, ha corretto e arginato dove poteva, conquistandosi anche una vittoria che nello score politico va assegnata a Trump ma in quello della policy spetta a lui, la riforma fiscale. A quella è legata la frase più bella che ha rivolto al presidente: “Trump ha avuto il grande merito di lasciarci fare”. Occorre avere talento per eccellere nell’arte del farsi da parte. Con il ritiro di Ryan si chiude anche la parabola del politico di nuova generazione, il volto giovane che rinfresca e rinvigorisce il partito con nuove idee. Lo speaker è stato il testimonial più fotogenico di questa new wave, ma a forza di scossoni, di cambi di vento e di clima politico, di riflussi della storia e virate improvvise, si è ritrovato a 48 anni a essere un politico stagionato – i maligni dicono bollito – logorato dai meccanismi di Washington e con tre teenager a casa che non hanno nessuna voglia di andare il sabato a caccia e la domenica a messa. Per evitare di aggiungere a tutto questo anche la carica poco onorifica di weekend dad, la promessa politica di una generazione ha deciso di uscire dal gruppo.
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