La California mette al voto la divisione in tre stati
Un'idea balzana che esprime lo spirito del tempo
Nel 2014 il venture capitalist Tim Draper ha sottoposto al segretario di stato della California la proposta di dividere lo stato in sei stati indipendenti più governabili, con apparati burocratici più agili e migliori possibilità di rispondere alle esigenze specifiche dei cittadini della quinta potenza economica mondiale. Mentre il mondo tende a unirsi e globalizzarsi, Draper pensa che la soluzione per affrontare il futuro sia la balcanizzazione. L’idea ha passato il primo vaglio amministrativo ma non ha superato il test per diventare un quesito referendario, poiché il team addetto alla raccolta delle firme necessarie ne ha falsificate circa settantamila, nella foga di raggiungere l’ingente quota richiesta. Draper non si è dato per vinto. Ha riformato in senso moderato la sua proposta, accontentandosi di una divisione in tre stati, ha tirato fuori oltre cinque milioni di dollari e si è rimesso, questa volta con maggiore disciplina, a raccogliere sottoscrizioni.
A novembre gli elettori della California si troveranno fra i quesiti elettorali anche quello sulla divisione californiana in tre regioni separate: una, che manterrebbe il nome di California, è la sottile ma sovraffollata striscia che comprende la città di Los Angeles e si estende a nord fino a Monterey; all’area della baia di San Francisco farebbe capo la Northern California, mentre la Southern California comprenderebbe San Diego, Bakersfield e la Orange County. Non è una proposta radicale come la Calexit perorata dall’enigmatico e balzano attivista Louise Marinelli, un giovane che ha lottato per il matrimonio fra uomo e donna, poi è diventato un testimonial della causa arcobaleno, si è buttato sulla campagna sovranista per la secessione californiana e infine, dopo essersi iscritto all’università di San Pietroburgo, ha deciso per motivi non meglio specificati di trasferirsi a Ekaterinenburg, in Russia. Draper ha ammantato il suo tentativo di ragioni razionali proprie di chi ha studiato alla business school di Harvard e poi ha messo in piedi un piccolo impero finanziario nella Silicon valley.
La California, sostiene Draper, è un pachiderma burocratico con potenzialità largamente inespresse, è disomogenea dal punto di vista dei settori produttivi e delle necessità legislative, contiene conflitti indennitari e politici che sono invisibili soltanto perché nell’immaginario comune prevale la California urbana e progressista. Ma nel Golden State c’è la Silicon Valley e c’è la potenza contadina della Central Valley, ci sono i servizi finanziari di San Francisco e il settore petrolchimico di San Diego, ci sono neri e ispanici, università d’élite e comunità in roulotte, il regno di Google confina con Trumplandia. Perché non separarsi? Perché non assecondare la pulsione tribale e identitaria che attraversa il mondo intero? “I cittadini di tutto lo stato sarebbero serviti meglio da tre stati più piccoli e allo stesso tempo manterrebbero i confini delle varie contee, città e paesi”. Draper è certo che in questo modo tutte le parti di questo insieme eterogeneo ne trarranno benefici, ciascuno potrà mettere in pratica leggi e politiche fiscali che trova più consone e lo stato si affrancherà finalmente dalla fama di superpotenza che accumula debiti e impone tasse stellari per cavarsi dai pasticci. L’idea di Draper non è destinata a una grande fortuna referendaria, ma si dice che la California anticipi sempre le tendenze che poi si ripresentano su scala nazionale: e la tendenza, oggi, è quella della divisione.
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