Alex Jones (Foto Sean P. Anderson via Wikimedia)

Ottime ragioni per bandire Alex Jones dai social, ma il metodo è sbagliato

Il troll complottista nel mirino di Infowars. Apple, Facebook, Spotify, perfino di YouPorn. Ma nessuno articola il divieto nei termini legali certi e circoscritti della diffamazione e della calunnia

Alex Jones è il re delle teorie del complotto, l’imperatore delle fake news. La sua area di expertise affianca grandi classici della cospirazione, come il finto sbarco sulla luna girato a Hollywood, gli attacchi dell’11 settembre pianificati dal governo americano e tutto l’armamentario paramassonico intorno al “nuovo ordine mondiale”, a tesi più innovative e oltraggiose. Il suo tormentone preferito riguarda le stragi da arma da fuoco nelle scuole, quasi tutte inventate dalla lobby antiarmi per promuovere il gun control e infine disarmare il popolo americano, rimettendo in discussione il Secondo emendamento. In particolare, Jones sostiene che nella strage della scuola elementare di Sandy Hook, nel 2012, non è in realtà morto nessuno e le famiglie delle vittime sono protagoniste di una colossale messinscena: “Ho osservato tutto, e chiaramente è tutta una copertura, sono attori che stanno manipolando il pubblico, sono stati sorpresi a mentire, stavano chiaramente provando già da tempo la loro parte”.

 

Le famiglie dei bambini uccisi in Connecticut lo hanno denunciato, e ora il 44enne anchorman texano si sta difendendo in tribunale. All’inizio di questa settimana diverse compagnie tecnologiche e piattaforme social hanno deciso di bandire i contenuti che incessantemente diffonde tramite il portale Infowars. Apple, Facebook, Spotify, YouTube e Pinterest hanno, in un modo o nell’altro, bandito o limitato la presenza di Jones sulle loro piattaforme, Amazon ha “nascosto” i prodotti legati a lui dalle sue ricerche. Perfino YouPorn, in un gesto di solidarietà, che fa rima con pubblicità, ha preso una posizione dura: “L’odio non ha posto su YouPorn”. L’eccezione, inevitabilmente criticata, è quella di Twitter, che non ha cacciato Jones, e non perché approvi i contenuti che propone, ma più semplicemente perché “non ha violato i termini del nostro servizio”. Il complottista esibisce la censura come una medaglia al valore, e ha colto l’occasione per lanciare una controcampagna: “La censura di Infowars conferma tutto quello che abbiamo sempre detto. Chi si opporrà ora alla Tirannia e starà dalla parte della libertà di parola?”.

Così Jones ha trasformato il caso in un attacco alla libertà tutelata dal primo emendamento, e anche altri, al di fuori del suo circolo di fanatici, si domandano se i provvedimenti nei suoi confronti siano in linea con il dettato costituzionale. La questione però è fuorviante. Le aziende private sono libere di fare regolamenti per l’uso dei loro prodotti e di rifiutare i loro servizi a chi non li rispetta, il primo emendamento non c’entra nulla. L’aspetto invece complicato, e preoccupante, del bando di Jones dai social sono le motivazioni vaghe, nebulose, legalmente imprecise e dunque esposte a strumentalizzazioni che le aziende hanno addotto. Apple dice che “non tollera l’hate speech”, Facebook spiega che l’agitatore “glorifica la violenza” e “usa un linguaggio disumanizzante verso i transgender, gli immigrati, i musulmani” e tutti parlano di motivi che hanno a che fare con l’odio, la molestia verbale, l’offesa, categorie ampie e arbitrarie, oggi usate per punire un propalatore conclamato e impenitente di oscenità, ma che domani potrebbero essere rivolte anche a opinionisti rispettabili che mettono in discussione il pensiero mainstream. Nessuno articola il divieto verso Jones nei termini legali certi e circoscritti della diffamazione e della calunnia. Una giusta punizione esercitata con metodi sbagliati.

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