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Perché la destra populista odia le bici e le ciclabili?

Giovanni Battistuzzi

Mentre tutte le grandi città europee (indipendentemente da chi le amministra) hanno deciso di puntare sulla bicicletta, a Milano Fratelli d'Italia vuole "picconare" la corsia ciclabile di Corso Buenos Aires

È stato un ondivago vagare tra “quella ciclabile non s’ha da fare”, “per qualche radical chic in bicicletta bloccate la città” e “state attentando all’economia locale per permettere a quattro scemi di pedalare”. Così da anni, ora il tripudio: un piagnisteo continuo, visto che le ciclabili sono aumentate e sono spuntate – a volte senza un progetto unitario come nel caso di Roma, a volte in modo ben studiato – nelle maggiori città italiane. Una gran parte della destra italiana populista le biciclette non le digerisce, non capisce neppure perché ci sia qualcuno che ci monti sopra. Sono un intralcio alla libera circolazione (delle automobili, ovviamente). Sarà che il tema della tutela dell’ambiente è questione per Verdi, sarà che l’efficienza del trasporto pubblico è un vecchio (e quasi dimenticato) pallino della sinistra, sarà che vale ancora il pregiudizio che chi sceglie la bicicletta per muoversi è un poveraccio, o peggio ancora un hipster, ma sembra che non ci sia verso di uscire da tutti questi cliché.

 

Il nuovo fronte dell’intolleranza alle corsie ciclabili è il dire che non servono, che sono fatte male, sono pericolose, diminuiscono lo spazio per le automobili ed espongono i ciclisti urbani a nuovi pericoli. Tesi tirate fuori ovunque, da Roma a Napoli, passando per Bologna e Bolzano. L’ultimo caso a Milano. Alcuni militanti di Fratelli d’Italia guidati da Maurizio Gussoni, candidato presidente al Municipio 3, si sono armati di martelli e hanno fatto un sit-in a favor di macchine fotografiche e telecamere per denunciare lo “schifo” del cordolo di cemento che divide la corsia dedicata alle biciclette dal resto della carreggiata.

 

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Della sicurezza dei ciclisti ovviamente ai sit-inettanti interessa niente. Per loro il vero problema è che “inseguendo un sogno malato, sono stati eliminati centinaia di posti auto per far posto, sul lato destro della strada, alla pista. Ma non basta: subito dopo è stata installata una cervellotica, quanto inutile, pista per i pedoni. Per poi finire in bellezza creando dei parcheggi (pochi!) per le auto. Il risultato di tutto questo è quello di veder parcheggiate le auto proprio nel bel mezzo della carreggiata”, scrivono sul sito di Fratelli d’Italia.

Su una cosa però i sit-inettanti hanno ragione. Il cordolo in cemento potrebbe essere pericoloso. Tanto che nei paesi ad alta ciclabilità non sono più utilizzati, perché dannosi e inutili. Ma prendersela con i cordoli, per un sostenitore della destra nazionalista è un po' come prendersela con sé stesso, o almeno con una parte della propria famiglia politica. Perché furono proprio due personalità “di destra”, Jörg Haider e Boris Johnson, a inaugurarne la stagione. Fu il politico austriaco uno dei primi a sdoganarli come “novità importante per la sicurezza dei ciclisti” nel 1990, quando era governatore della Carinzia. Fu il premier inglese a sparpagliarli per Londra all’epoca del suo tentativo di rivoluzionare la mobilità della capitale inglese.

Ethan Lowry, umorista e autore televisivo per quasi quarant’anni alla BBC, nel 2012 fu accusato di eresia dal partito a cui era sempre stato iscritto, il Labour, perché si era espresso pubblicamente in favore del progetto di Boris Johnson di revisione della mobilità: “Credo che la mobilità non sia né di destra né di sinistra. È solamente un fatto di buon senso. Diminuire il numero di automobili in circolazione, cercare di rendere sicuro il camminare, il pedalare, il pattinare nelle nostre città è un modo per migliorare la qualità della vita di tutti. L’eccesso di automobili ha un costo sociale e sanitario enorme. Fare qualcosa per diminuirlo è una questione di intelligenza gestionale. Se non lo fa il Labour e lo fanno i Tory per me non fa differenza. Preferisco compiacermi di Boris Johnson che non compiacermi affatto”.

 

Pensare a uno scontro identitario tra sinistra o Verdi a favore della bicicletta e destra contraria è una colossale baggianata. Lo scontro è culturale, certo, ma qui la politica c’entra fino a un certo punto. A contare è la capacità politica di leggere la realtà, quella che dovrebbe far capire che fare una guerra alle ciclabili e alla mobilità in bicicletta è una crociata donchisciottesca, ma senza nemmeno un animo generoso e spavaldo.

A dirlo non è l’ideologia. Sono i dati economici. Quelli del commercio innanzitutto: le attività commerciali in zone pedonali fatturano in media il diciannove per cento in più di quelle su strade aperte al traffico veicolare (dati forniti dall’Unione europea). Secondo uno studio effettuato dalla Victoria Transport Policy Institute (VTPI) della British Columbia, i costi sulla collettività si riducono in media di 24 centesimi (tra costi sociali e sanitari) per ogni miglio percorso a piedi e in bicicletta rispetto a uno in automobile. Nel 2015 il governo guidato da David Cameron commissionò una ricerca per capire quali fossero i benefici per la società di una serie di interventi per disincentivare l’utilizzo delle auto di proprietà nelle maggiori città inglesi. Questo studio stimò in circa 42 miliardi di sterline il risparmio medio annuo di un progressivo passaggio dal 2 al 25 per cento degli spostamenti in bicicletta e in circa 16 miliardi di sterline quello derivante dall’aumento dal 10 al 20 per cento di spostamenti a piedi o con i mezzi pubblici.

Risultati che aveva in mente anche l’ex sindaco di Oslo tra il 2000 e il 2009, Erling Lae, quando nel 2001 iniziò a pedonalizzare il centro storico della capitale norvegese (ora tutto completamente chiuso al traffico) e a creare le prime zone 30. I commercianti andarono su tutte le furie per la scelta, lo accusarono di essere un Giuda, di aver tradito il loro voto. Giurarono di non votare più per il partito conservatore. La guerriglia dialettica durò qualche mese. Due anni dopo l’84 per cento delle attività commerciali dichiarò di aver tratto dei benefici dalla chiusura del centro, il 77 per cento anche dalla diminuzione delle automobili in città. In un sondaggio del 2015, quando la zona pedonale era più che raddoppiata, il 98,1 per cento dei commercianti dichiarò di essere contrario a un’apertura della circolazione.

 

E così mentre gran parte delle grandi città europee, indipendentemente da chi le amministra, sta costruendo piste ciclabili, sta pensando a massicce pedonalizzazioni (qui un'analisi pubblicata dal Foglio ad aprile), la destra populista italiana (e non solo, anche a sinistra non mancano gli scettici) si scaglia contro tutto ciò. Dimenticando che proprio a Milano fu una sindaca di centrodestra, Letizia Moratti, a iniziare l’ammodernamento della mobilità tra introduzione del bike sharing, la creazione di alcuni percorsi ciclabili, l’aumento delle zone pedonali e l’introduzione dell’eco-pass.

E questo ben prima del Covid.

Che la mobilità in Italia avesse dei problemi era infatti chiaro ben prima della pandemia. Il Covid-19 si è limitato soltanto a sottolinearli, esasperandoli. Il nostro paese non è il solo che si è accorto di questo, è in bella e ampia compagnia. Quello che il virus ha messo in evidenza è che nelle nostre città servono spazi. Quelli per rimanere all’aperto a bere e a mangiare (il divieto di consumazione all’interno ha messo in moto un fiorire e un allargarsi dei dehor), soprattutto quelli per muoversi. Perché la possibilità di muoversi deve essere garantita a tutti e, con la diminuzione del numero delle persone che utilizzano i mezzi pubblici, le grandi città non potevano ritrovarsi bloccate da autoveicoli in coda (il nostro Pnrr in questo però non è stato ambizioso). La sindaca socialista di Parigi, Anne Hidalgo (che ha ridisegnato gran parte della capitale), quella verde di Bogotà, Claudia Nayibe Lopez Hernandez, quella moderata di Stoccolma, Anna Margaretha König Jerlmyr, e quello di Atene, il conservatore Kostas Bakoyannis, tra il maggio del 2020 e il luglio del 2021 hanno detto tutti la stessa frase: “Pensare che ritorneremo alla città che c’era prima è utopia. La soluzione ai trasporti pubblici meno utilizzati non sono più auto, sono meno auto”. Figurarsi i martelli dei populisti meneghini.

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