Le città a 30 all'ora non sono né giuste né sbagliate: sono contro la scienza statistica
Sarebbe stato più utile sperimentare la misura dapprima su piccola scala, raccogliere i dati, metterli liberamente a disposizione dei ricercatori per una valutazione aperta, fuori dal monopolio e dal conflitto di interessi del decisore pubblico
Lucca, Parma, Bologna, Verona, Pordenone, Piacenza, Empoli, Bra, Milano, Roma, Firenze. Sono le città italiane che trovate nelle prime tre pagine di risultati di Google se cercate “zona 30”, ovvero città che hanno adottato o stanno adottando, in misura più o meno diffusa, provvedimenti di riduzione del limite di velocità a 30 km/h al posto dei canonici 50 km/h. è un tema attuale, rilanciato dal tragico incidente di Casal Palocco.
Siete favorevoli o contrari? Sono possibili due tipi di risposta. La prima, di pancia, basata su sensazioni, preferenze, intuizioni, condizionamenti ambientali vari, etc. La seconda, di testa, basata su un’attenta elaborazione dei dati.
Più in dettaglio, una risposta assennata dovrebbe tenere conto delle seguenti informazioni di contorno: l’abbassamento del limite riduce l’incidentalità? Riduce l’inquinamento? Aumenta i tempi di percorrenza? Quale il ruolo di telecamere che rilevano automaticamente la velocità? Ci sono effetti collaterali di aumento della velocità nelle strade non coperte dal limite a 30 km/h? C’è uno spostamento della mobilità dal mezzo privato a quello pubblico, dall’auto o dalla moto alla bici? Questi effetti riguardano sia il breve sia il medio-lungo termine? In presenza di vantaggi e svantaggi ragionevolmente accertati, cosa suggerisce una loro sintesi fatta attraverso l’analisi costi-benefici? Domande più che ragionevoli, risposte più che necessarie.
Peccato che, a oggi, sul caso italiano non se ne sappia molto. E se è normale che il singolo cittadino esprima le proprie preferenze secondo la prima modalità, quella più impressionistica, è grave che scelga così il decisore pubblico e che così critichi l’opposizione. Sarebbe stato opportuno procedere diversamente. Sperimentare la misura dapprima su piccola scala, raccogliere i dati, metterli liberamente a disposizione dei ricercatori per una valutazione aperta, cioè accessibile a una pluralità di soggetti terzi fuori dal monopolio e dal conflitto di interessi del decisore pubblico che ha l’ovvio interesse a produrre risultati favorevoli all’iniziativa, produrre e confrontare le valutazioni. In caso favorevole, estendere eventualmente il nuovo limite a porzioni più ampie di città e mantenere attivo il sistema di valutazione e monitoraggio per feedback periodici. È stato fatto? No. Basta dare un’occhiata alle sezioni open data dei siti dei comuni per verificare quanto sia difficile avere accesso alle informazioni necessarie per valutare la politica “zone 30”. Questa riproduce, in vitro, un grande vizio di fondo del modo in cui le politiche sono scelte da chi governa e, parallelamente, avversate dalle opposizioni: l’assenza di informazione qualificata di supporto.
Perché accade questo? Vengono in mente due possibili spiegazioni che non si escludono a vicenda. La prima fa riferimento a ragioni culturali, le cui origini si perdono nel tempo, e che raccontano di una cronica riluttanza nei confronti dell’empirismo in favore di un idealismo delle élite. La seconda, più prosaica, è legata al comportamento dei politici, i quali ritengono forse più conveniente dal punto di vista elettorale utilizzare le politiche pubbliche non per accrescere il bene comune ma come segnali di fidelizzazione e di mobilitazione del proprio elettorato: da qui la stucchevole polarizzazione ideologica di ogni dibattito, magistralmente parodiata dalla canzone di Gaber Destra-Sinistra. Come uscirne? Sarebbe utile accrescere la domanda dei cittadini di valutazioni trasparenti, aperte, qualificate. E i media potrebbero svolgere un importante ruolo di pungolo. Accettare il modo attuale di compiere diverse scelte pubbliche è come accettare di viaggiare su un’auto condotta da un autista bendato che, però, è molto abile nel narrare piacevoli storie consolatorie e identitarie. Da cittadini adulti, non abbiamo bisogno di queste storie. Ci serve invece un guidatore silenzioso, con gli occhi aperti e che ci porti verso il futuro senza finire fuori strada.