Gran finale con Armani e il convitato di pietra. Il cliente
Ultimo giorno della Milano Fashion Week. In Duomo la messa in suffragio di Franca Sozzani
Milano. Milano Fashion Week sfilate collezioni donna autunno inverno 2017-2018, giorno 6 cioè Gran Finale. Quattro ore prima della messa placé in Duomo in suffragio di Franca Sozzani, con l’ex premier Matteo Renzi che entra, discreto, da una porticina laterale, mentre qualche disgraziato la definisce “l’evento mondano della settimana” sventolando il cartoncino di invito (chissà se lei l’avrebbe mai voluta così), nel grande teatro disegnato da Tadao Ando sfila Giorgio Armani. “Segni, cromatismi, materie che si moltiplicano, come le sfaccettature di una gemma preziosa”, recita la cartella stampa infilata nella poltroncina, sotto le luci blu oltremare che è uno dei colori ricorrenti della sua palette. “Una declinazione nuova dello stile Armani: libera, consapevole, sottilmente irriverente”. Di certo, “molto Armani”, come usa dire nell’ambiente.
Nel rigore della sua formula, o del suo format, è uno dei pochissimi stilisti che non abbia bisogno di aggiungere il proprio nome in fondo alla passerella. Chiunque, anche fra chi sa nulla di moda e qui arriviamo al tema del giorno, ne riconosce i segni e lo stile, cioè i famosi, sempiterni “codici”. Come sempre accade quando la moda inizia a srotolare il sipario e si spengono le luci della festa, spunta infatti il convitato di pietra, cioè il cliente. Chi-comprerà-che-cosa di quello che si è visto. E soprattutto a quali condizioni. In tanti anni di bla bla sulle ragioni profonde del nostro vestire e di lambiccamenti sul significato simbolico dell’accostamento di piume di marabù e lane grezze, mi sono sempre domandata se tutto questo gran scrivere e scornarsi, tipico del nostro ambiente e un po’ ossessivo, interessi almeno un po’ non solo al grande pubblico, che di solito si eccita solo per la presenza di una grande star in passerella e mediamente giudica tutto “importabile per andare in ufficio”, ma anche alle donne ben provviste di denaro e di tempo per comprare non una ma cinque collezioni intere (non è una boutade: ho sentito con le mie orecchie una signora di origine mediorientale raccontarlo alla cena che Hermès organizzò mesi fa a Palazzo Farnese). Chi legge le nostre recensioni, dotte o meno che siano? E quando anche le leggesse, ne terrà mai conto prima di compiere il famoso atto di acquisto, oppure si fa sedurre dalle pubblicità e dai servizi di moda, cercando solo nell’immagine suggerimenti, rassicurazioni e sogni di identificazione? Un amico che veste le star da trent’anni per conto degli stilisti dice che, fatto salvo il gusto e l’inclinazione personali nei confronti dell’uno o dell’altro stile (per toccare due estremi: non ti possono piacere allo stesso modo Dolce&Gabbana e Bottega Veneta o Jil Sander), le clienti partono solitamente a caccia di un capo ben preciso di cui hanno bisogno: gonna nera, tubino per la mezza sera, giacca per andare nell’agognato ufficio.
Qualcuna ravviva il vecchi tubino con le scarpe nuove. Le aristocratiche, osserva con un ghigno il buyer maximo Beppe Angiolini, di solito non spendono niente e usano i vestiti di sartoria della nonna menandone gran vanto (nelle serate romane vengono sfoggiati con sussiego abiti Capucci macchiati di burro decenni fa e presumibilmente mai passati in tintoria). Le nuove ricche di tutto il mondo spendono invece moltissimo, come confermano anche i Giglio che da Palermo inondano mezzo globo di abiti griffati ordinati via web e nel 2016 hanno registrato una crescita del 46 per cento e adorano frequentare le sfilate, come ha dimostrato il pellicciaio Braschi che, dopo aver tentennato anni fra fiere e presentazioni, sabato sera ha allestito a Palazzo Clerici uno spettacolo di pelliccione e pelliccette intarsiate da trentamila euro in su facendo il pieno di russe e uzbeke inguainate, truccate, liftate e coperte di zaffiri e brillanti. Nessuna delle succitate categorie temo però che abbia seguito i nostri distinguo e i nostri rimandi fra un articolo e l’altro, in particolare attorno alle sfilate più sofisticare e in apparenza estranee alla realtà industriale manifatturiera, vedi Gucci, Marni, Marras e in particolare Prada, accompagnata dalla riflessione di Miuccia Prada sulla seduttività femminile, i suoi stereotipi e i suoi segni.
Le piume, le penne, le pellicce, le perle, i tacchi ad ala di rondine, gli abiti fascianti che ha (molto) riccamente stratificato e rimescolato, facendone oggetto di un pensiero sulla “intangibile centralità del ruolo contemporaneo femminile su scala pubblica e privata” sono stati sezionati, commentati, smontati e rimontati in articoli a tutta pagina in ogni angolo del mondo. Ma chi, quante, e in che modo hanno colto questo messaggio e non vi hanno invece visto solo una affabulazione di bellissime proposte sexy? E se una cliente dovesse comprarne “anche solo una, e sarebbe abbastanza”, come suggeriva Vanessa Friedman sul New York Times, cioè mettiamo un paio di scarpe o una sciarpa con le piume, comprerebbe una sineddoche stilistica, una parte per il tutto, cioè un pezzetto di questa riflessione sul ruolo femminile, o semplicemente una bella scarpa? Una ragazza di Seattle o di Kyoto, nata e cresciuta in culture diverse da quella in cui la scarpa è stata creata, vi vedrebbe il segno di un pensiero femminista o solo un bell’oggetto con cui far bella figura al primo appuntamento? Insomma, non è che ogni tanto dovremmo provare a domandarci di che cosa stiamo parlando, innanzitutto, e a chi? Le regole del desiderio, e dei modi per suscitare e sollecitare l’acquisto di un bene voluttuario come la moda, non possono certamente basarsi sulla mera realtà del capo o dell’oggetto. Ma caricarlo di troppi valori altri, soprattutto in un mondo che non vede, non conosce o che non riconosce appieno tutti questi valori, rischia di trasformarsi in chiacchiere velleitarie. Me ne sono accorta dopo una serie di lezioni che tanti di noi in Sapienza, sociologi, docenti di storia dell’arte, di filologia, di marketing, hanno fatto a un gruppo di studenti stranieri per tre mesi, al termine dei quali una studentessa mi ha appoggiato una borsa griffata sulla cattedra. “Mi scusi”, mi ha detto, “ma alla fine di tutto, questo è lusso o no? E qual è il suo prezzo corretto?”.