Do you speak Guccy?
Alla galleria Palatina di Palazzo Pitti sfila la collezione Cruise 2018 della griffe che ora si sente così forte da decidere di storpiare il proprio logo
Alla galleria Palatina di Palazzo Pitti sfila la collezione Cruise 2018 di Gucci, che sulle rive dell’Arno è nato nel 1921 e che ora si sente così forte da decidere di storpiare il proprio logo in un accattivante “Guccy”, al tempo stesso sberleffo ai contraffattori e ammiccamento ai tanti devoti americani e cinesi alla griffe. L’ultimo a prendere posto fra i Sodoma e le gravide di Raffaello, dopo Dakota Johnson che ha la schiena davvero meno tonica di quanto ci si potrebbe aspettare da una ventenne che si è fatta frustare davanti alla cinepresa delle “Cinquanta sfumature”, e dopo Elton John che invece porta i capelli di una sfumatura appena meno chiara di quelli di Donald Trump, è il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt. Tedesco, prestante, inattaccabile anche dai ricorrenti all’ormai celeberrimo brand “Il Tar del Lazio”, il tribunale del salvacondotto garantito ai centurioni in elmo di plastica del Colosseo e agli studenti asini, in poco più di un anno ha ribaltato il percorso dell’affollatissimo museo, rendendolo finalmente non solo visitabile, ma anche godibile per i tre milioni circa di visitatori all’anno, e ha appena portato nelle casse dell’istituzione che guida altri due milioni di euro per il restauro e la valorizzazione dei meravigliosi Giardini di Boboli, oltre all’affitto delle sale dove ora ci troviamo, generosa offerta delle casse a nove zeri di Gucci che dapprincipio avrebbe voluto sfilare sotto il Partenone, ma poi si è trovato a dover combattere il populismo di Tsipras e si è detto per carità. Siamo circa quattrocento, e all’appuntamento in Galleria molti di noi sono arrivati dopo un percorso a tappe, una sorta di “Pilgrim’s progress” francamente irripetibile da cui gli uscieri del Corridoio Vasariano ci hanno sospinti fuori recalcitranti ma radiosi.
Visita riservata degli Uffizi, chiusi al pubblico il lunedì e dunque motivo della convocazione in un giorno tanto insolito della settimana; percorso sopra l’Arno lungo il Corridoio Vasariano (“please don’t stop on your way”), sbirciando il parroco che dice messa nella chiesa di santa Felicita dalla stessa posizione in cui l’ascoltavano i tanti Gastone che si sono succeduti nella famiglia Medici e che sono tutti affissi nella fascia alta della Galleria, un po’ discosti dai parenti francesi, i figli e i nipoti di Caterina e soprattutto di Maria, madre di Luigi XIII, riconoscibilissimi dalle lunghe parrucche a boccoli e dalla ridondanza di decorazioni che sono un po’ il tratto anche di molti fra gli ospiti della sfilata. Se ne è avuta un’impressione nettissima al cocktail sulla terrazza di Palazzo Pitti che ha preceduto lo show, e sono almeno vent’anni che non succedeva, forse trenta: Gucci funziona e i suoi fatturati crescono a due cifre, caso pressoché unico in un sistema che inizia ad accusare pesantemente i colpi inferti dal fast fashion e dalla frammentazione delle tendenze, non (solo) perché chiunque, in tutto il mondo, può trovarvi un riferimento alla propria cultura, ma perché è diventato un movimento estetico: le vestaglie di seta portate come spolverino, le camicie di seta col fiocco, in versione jabot per gli uomini, i fiori stampati e ricamati ma solo quei fiori lì, peonie e ortensie da acquerello ottocentesco della zia, i bomber di satin ricamati, i mocassini in versione sabot, scalcagnati e rivestiti di pelliccia, gli occhiali da vista con il cappellino a veletta.
Un dandysmo trasversale, contagiosissimo, che lascia molto spazio anche all’interpretazione personale, e di cui sono piene, in versione imitativa, tutte le vetrine dei competitor, segno inequivocabile di leadership. In questo clima libertario e trasversale, gli ospiti indossano quasi tutti sopra le gonne e in pantaloni da sera il cappellino in juta ricamato con il proprio nome e la farfalla del bombyx mori, il baco della seta che ha segnato l’arrivo di Alessandro Michele alla direzione creativa di Gucci e la rinascita della griffe e che tutti si sono visti recapitare come invito, racchiuso in una scatola fantasiosamente riferita alla farmacopea dell’Urtica ferox, ongaonga in maori, un arbusto neozelandese al tempo stesso urticante e curativo sul quale gli invitati hanno dibattuto a lungo, nel tentativo di decrittarne la simbologia che è un altro dei tratti di questa nuova stagione iniziatica di Gucci. Per questa collezione, in omaggio al luogo e ai Medici, il direttore creativo Alessandro Michele è riuscito nell’esercizio oggettivamente difficile di affiancare i codici Anni Settanta, propri a Gucci, a visibilissimi richiami al rinascimento fiorentino. Bianca Cappello meets Bianca Jagger, per dire. Abbondano le ferroniere in metallo dorato sui capelli raccolti (nota a margine per Alberto Angela: la “belle ferronière” di Leonardo non è una signora, è un accessorio per capelli), le reticelle di perle dei ritratti del Crivelli e della Eleonora da Toledo del Bronzino. Qualche modella porta perfino i capelli raccolti sotto la gola come nel primo Rinascimento. Alla cena delle serre di Palazzo Torrigiani dove sessantadue anni fa nacque la moda Italiana, tutti felici dei lunghi abiti a fiori o modello debuttante inglese, delle cappe di pelliccia in visone e paillettes e soprattutto della pudicizia del tutto: la stagione delle carni esposte è sepolta insieme con la politica che l’accompagnava, le nostre soubrettone televisive dovranno farsene una ragione e rivestirsi. Fra i bossi del labirinto un amico di Alessandro Michele, inanella filastrocche come un tempo Sergio Endrigo, lepri e galline e reiterazioni lessicali già molto sentite, poi arriva sul palco Beth Ditto in miniabito Gucci incrostato di perle, calze mauve e turbante come un tempo le ragazze della sua possanza fisica non avrebbero mai osato fare, e lì capisci tutto.
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