Falsi di moda
L’universo dei social crea forme ibride di comunicazione. E il limite tra pubblicità, cronaca, banalità e mistificazione è sempre più vago
Chi crede che le fake news siano materia per terroristi dell’informazione concentrati sull’assalto dei migranti al Brennero o la distorsione maliziosa dell’abbraccio di Giuliano Pisapia a Maria Elena Boschi, è perché non frequenta il mondo editoriale del commercio, della moda, del design, della bellezza, dove la soluzione più praticata per arginare l’emorragia di copie e pubblicità è diventato il branded content, cioè i contenuti sponsorizzati, insomma le vecchie marchette vestite di nuova tecnologia, e la professionalità di chi li compila materia più scivolosa della pista del Pacha di Ibiza all’alba. La saldatura fra quello che Franca Valeri chiama perfidamente “il mondo cordiale”, cioè l’universo dei social che condivide tutto, meglio ancora fatti che lo vedono protagonista come per esempio la partecipazione al coro muto, ma provvisto di cellulari, di una rappresentazione del “Nabucco” del regista Jacopo Spirei a Como, e la necessità delle aziende di intercettare tutte queste condivisioni a proprio uso e consumo, sta creando forme sempre più ibride e trasversali di comunicazione, in cui il limite fra pubblicità, informazione, cronaca e retorica, banalità e mistificazione è sempre più vago. In parallelo, va affermandosi un esercito di mezze figure che, impossibilitate ad accedere alla professione giornalistica dalla porta principale causa sbarramento della stessa, o anche non interessate a farlo e come dar loro torto, dopo essersi inventate forme di comunicazione alternative sfruttando le piattaforme dei social, che gestiscono spesso molto male ma talvolta benissimo, sono diventate prede ambite di questo mondo editoriale intenzionato a garantirsi la sopravvivenza anche a costo di trasformare se stesso in un’agenzia di pubblicità multimedia a servizio completo, stampa, web, social in combinato trasversale, e i giornali in una sorta di house organ multimarca, privi di pubblicità apparente in quanto innecessaria perché sostituita da articoli che sono pure e semplici ricadute editoriali di eventi, presentazioni, feste, lanci di prodotti e prove degli stessi organizzati dalla stessa casa editrice a uso dell’inserzionista pubblicitario: un circuito nel quale il lettore o lo spettatore possono al limite diventare co-protagonisti, ma chi testimonia il tutto non si sa bene che forma possano assumere.
Il "branded content" (contenuti sponsorizzati) nel mondo editoriale del commercio, della moda, del design,
della bellezza
Si tratta di un’evoluzione possibile e non necessariamente negativa, dopotutto questo genere di stampa è nata al servizio della società borghese che si affermava e che aveva bisogno di capire cosa acquistare per darsi un tono, non certo per formare le coscienze: il punto centrale, in una società civile, resta però la salvaguardia del lettore, cioè che chiunque guardi o legga questi contenuti possa capire che cosa si trova sotto gli occhi e decidere se ne valga la pena. E purché, ma questa è una fisima dei pochi di noi cresciuti nel culto di Flaubert e di Calvino, l’uso dell’aggettivazione degli scriventi di siffatti articoli e post non si limiti allo “straordinario” e all’“iconico”, e l’approfondimento alla nozione che “Coco Chanel liberò le donne dal corsetto”, innanzitutto perché non è vero.
Il mondo dell’informazione è a una svolta, lo è da anni in tutto il mondo, non senza attriti e ansie. L’Italia, bisogna dire per eccesso di zelo e per una certa sua natura nostalgica, stenta a capire come affrontarlo e soprattutto come farlo al meglio, cercando cioè di dare una forma adeguata ai tempi, interessante e remunerativa ma anche onesta, a media che seguono ancora regole plurisecolari e che forse anche per questo sono in crisi. Una parte essenziale di questo processo è l’inquadramento, in una forma e in un futuro possibile, di professionalità che vanno formandosi spontaneamente e che tuttora mostrano l’aspetto di un ciuffo di erica in un giardino di siepi di bossi. Non è la prima volta che va profilandosi un’esigenza di questo tipo, anche in questi ultimi decenni. E, com’è naturale per ogni cambiamento, non è la prima volta che la sola idea susciti un vespaio. Nel 1990, l’Ordine dei giornalisti accettò fra le proprie fila i compilatori di house organ (nota bene per questi tempi di invettive ignoranti: compilatore era il sostantivo che indicava gli scriventi di carta stampata prima che il giornalismo diventasse uno status alla fine dell’Ottocento, dunque non è un’offesa). Fra gli aspiranti Barzini jr si scatenò il finimondo. Dove saremmo andati a finire noi che sostavamo eroici intere giornate negli uffici delle procure o sulle terrazze degli alberghi del medio oriente a scrutare l’orizzonte come il sottotenente Drogo, ora che eravamo costretti a mescolarci con quegli scribacchini al soldo delle aziende che pretendevano di presentarsi all’esame di stato al pari di noi, che forse non capivamo al soldo di chi fossimo ma che in caso fossimo stati sfiorati dal dubbio avremmo sempre potuto dare la colpa al nostro editore? Finì con qualche distinguo snobistico e qualche puntiglio sugli inviti ai convegni più in vista, insomma quisquilie. Quando, un annetto fa, Montepaschi andò a rischio di default, venne cioè salvata dall’intervento del governo che dal fallimento dell’istituto avrebbe tratto solo guai in Europa, si scoprì che i migliori di noi erano a ricco libro paga come scriventi sull’house organ dell’istituto.
Nel 1990, l'Ordine
dei giornalisti accettò
fra le proprie fila
i compilatori di house organ. Fra gli aspiranti Barzini jr si scatenò
il finimondo
Poco tempo dopo, fu la volta degli uffici stampa. L’Ordine dei giornalisti, “in ottemperanza alla legge 150/2000 sulla disciplina delle attività di informazione e di comunicazione della Pubblica amministrazione”, ma appellandosi anche all’articolo 34 della legge sulla stampa, approvata nel 1963 e da allora adattata a molti usi, vidimò con l’iscrizione all’albo dei pubblicisti la scrittura e le attività del collaboratore e al tempo stesso dell’avversario naturale dei giornalisti, l’ufficio stampa. Una volta calmate le acque, i migliori di noi vennero intercettati mentre scrivevano cartelle stampa al soldo delle aziende delle quali scrivevano, pagati e tutelati, sul giornale che li aveva assunti; ne nacque qualche baruffa in redazione e volarono minacce di deferimento all’Ordine, ma il più delle volte anche queste imbarazzanti faccende finirono nel nulla, fermo restando il risentimento del malandrino nei confronti di chi, incaricato per ruolo di sorvegliarlo, l’aveva colto con le dita su una tastiera che gli sarebbe stata preclusa per contratto. Ora, più d’una azienda e per conseguenza molte case editrici vorrebbero cercare di inquadrare e fare affari diretti con i blogger, una categoria liquida che accorpa idolatri di borsette senza alcun pensiero in testa se non quello di farsi pagare per sfoggiarne di nuove e gratuite, ma anche gente seria e preparata, che in realtà vive o vivacchia ai margini della società dell’informazione da quasi vent’anni. Nessuno si era mai interessato al loro potenziale economico fino a quando alcuni di questi blogger, e principalmente Chiara Ferragni che è l’esempio per tutti benché sia ormai diventata un’imprenditrice con negozi a carico e produzioni industriali da sostenere, hanno superato la soglia dei tre, cinque o otto milioni di follower, trasformandosi dunque in mezzi pubblicitari molto appetibili in un mercato dove la rivista femminile più venduta non supera, ufficialmente, quota centocinquantamila copie quando dieci anni fa ne diffondeva quasi il doppio.
I follower vantati
da tanti venti-trentenni sono in larga parte acquistati a peso
per pochi euro,
ma la pubblicità
non manca
Come noto ormai anche alle pietre, i follower vantati da questi venti-trentenni sono in larga parte acquistati a peso per pochi euro (ne scrivemmo sul Foglio più di un anno fa, decrittando i metodi e i luoghi delle cosiddette “click farm”, le fabbriche dei like, e chiunque di noi abbia un profilo social di una qualche rilevanza riceve almeno un’offerta al giorno da parte di queste società, in buona parte basate in India), e l’indicizzazione dei loro siti aggiornata costantemente a prescindere dal tono e dagli argomenti trattati. Non di rado ignorano le più elementari regole della sintassi, per non dire quelle della deontologia, che comunque non sono tenuti a rispettare: per paradosso, come nota anche Massimo Borgnis, vicedirettore di Chi e direttore di Spy, nuovo settimanale pepato e controcorrente che in queste settimane di lancio sta sbancando le edicole, dietro bonifico potrebbero sostenere una marca di cereali prodotti da mais biologico e una prodotta dalla macinatura delle ossa dei bovini senza porsi il minimo problema etico e senza alcun controllo terzo, fosse quello di un Ordine o del Giurì della pubblicità. Alcuni di loro non saprebbero nemmeno distinguere tecnicamente l’uno dall’altro, non essendo la competenza, e della lingua e della materia trattata, una variabile discriminante, ma solo e principalmente l’adeguatezza ai canoni della tendenza corrente. Però, e benché sappiano benissimo come applicare loro una tara e giudicarli di conseguenza, per la maggior parte dei brand di moda, bellezza o lifestyle, che vivono di ricadute promozionali e che sono rosi dall’ansia del fatturato e dei risultati trimestrali, l’idea di farsi pubblicità attraverso quei blog, quegli account instagram o snapchat è diventata una fissazione.
Nel tentativo di fare un po’ d’ordine, le authority di mezzo mondo, compreso l’Antitrust italiano, hanno inviato lettere di moral suasion e richiami a chi, come Ferragni, ma anche Belen Rodriguez, Melissa Satta o il povero Fedez, catapultato a forza in un mondo che non è il suo a giocare partite di cui non conosce i fondamentali, riesce in una giornata a fare pubblicità a dentrifrici, biscotti, creme e calzature senza mai esplicitarlo. Resta però il punto, non trascurabile ma anzi dirimente, della competenza, dal linguaggio alle tecnicalità dell’argomento che i Fedez e le Tatangelo trattano e pubblicizzano. La questione dei corn flakes agitata da Borgnis, insomma. Per questo, Condé Nast, la società editrice di Vogue e di Ad che in Italia è forse la più attiva nel networking promozionale, ha da poco avviato il progetto di un corso semestrale, promosso con Sda Bocconi e sostenuto da L’Oréal, per formare un gruppo di influencer nel settore della bellezza. Il progetto è ancora in fase di studio, ma essendo stato annunciato una settimana fa nel corso di un convegno, ha subito dato adito a molte speculazioni, sia in relazione alla professione, pubblicitaria o editoriale non è chiaro, per la quale verrebbero formati questi influencer (che inoltre, in partenza, dovrebbero essere tutti laureati, dovendo accedere a un corso di specializzazione), sia in relazione a una certa qual perdita di innocenza che, fino a oggi, ha rappresentato almeno in parte l’attrattività di questa pur liquida e multiforme figura. La questione è particolarmente interessante nel momento in cui tutte le case editrici di tutto il mondo hanno iniziato a porsela; il Financial Times e il New York Times fra i primi. Ma, mentre il quotidiano inglese parla ormai senza imbarazzi di “corporate journalism”, declinazione moderna di quella perifrasi che, anche ironicamente e in traslato, noi italiani conosciamo come “le aziende informano”, i colleghi di Manhattan problemi se ne fanno eccome. Pochi mesi fa, uno dei commentatori del giornale ha tentato di indicare le specificità e i compiti, almeno apparenti, delle quattro forme para-giornalistiche più accreditate del momento, cioè il brand publishing (“la pratica grazie alla quale un marchio racconta cose di sé e del proprio settore di riferimento su un media in modo accattivante e non necessariamente autopromozionale”), il custom content, altrimenti detto branded content (“qualunque contenuto abbia il logo e il nome del committente stampato sopra”), il native advertising (“contenuto sponsorizzato promosso e visualizzato all’interno dei contenuti offerti al lettori”, per esempio i True View di Youtube, oppure i tweet sponsorizzati e i post sponsorizzati di Facebook), e lo sponsored content (“contenuto pagato”, in pratica una declinazione diretta e senza fronzoli del native advertising). Nessuno di questi casi, ha scritto, può contemplare la definizione di “brand journalism” o “corporate journalism” che ora si legge ovunque.
Non può essere definito giornalismo se prevede che il committente sia una parte terza rispetto al giornale e all'editore
“Il giornalismo può essere informazione, intrattenimento, inchiesta” e, aggiungiamo noi, nel migliore dei casi tutte e tre le cose insieme. In nessuno di questi casi può però essere definito giornalismo se prevede che il committente sia una parte terza rispetto al giornale stesso e all’editore, punto che a molti blogger e influencer sfugge del tutto, come abbiamo avuto modo di verificare dopo un primo giro di opinioni sul mezzo social in ultima analisi più frequentato, facebook. Una preparazione, dunque, sarà comunque utile. Per fare che cosa, resta da vedere. Un futuro da content provider, però, pare alla portata di tutti.
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