Addio pellicce. L'inganno della moda sostenibile
Dal 2018 Gucci produrrà solo collezioni "fur-free". Ma tra piume animali e tessuti sintetici la divisione buoni-cattivi non è così manichea come sembra
Il sessanta per cento del mondo veste fibre sintetiche. Pantaloni da jogging, tutine, giacconi di pile, piumini sintetici duck free ma poliestere-loaded. Zero piume animali, pellicce sempre meno, avanti con la plastica. Il loro solo lavaggio, a dati dell’Unione Internazionale per la conservazione della natura, è responsabile per il 33 per cento delle emissioni di microplastiche nell’ambiente. Sulla loro produzione (emissione gas, scarti di lavorazione, rifiuti eccetera), vi risparmio i dati che potete trovare su qualunque sito. Vi dico solo che non fanno benissimo ai ghiacci della Groenlandia e ai simpatici animali che la popolano e che da decenni difendiamo a spada tratta dagli autoctoni inuit, ormai e in buona parte ridotti a una massa di ubriaconi a carico di vari governi e istituzioni perché impossibilitati a cacciare le bellissime fochine con gli occhi tondi da bambino che ci fanno tanta tenerezza e per salvaguardare le quali il Parlamento europeo introdusse nel 2010 il divieto di commercio e acquisto di prodotti derivati.
Due anni fa, gli inuit si presentarono al Parlamento di Strasburgo per protestare contro la norma, che aveva fatto crollare le esportazioni di pelli di foca del 90 per cento condannando sessanta comunità alla fame: “Voi non potete capire che questo è il nostro modo di vivere e di mantenerci dall’alba dell’umanità”, pregò l’ex ministro dell’agricoltura e della caccia, ed ex cacciatore, Karl Lyberth, portando all’attenzione dei parlamentari europei l’evidenza che in Groenlandia non è facile sbarcare il lunario con la coltivazione delle pesche come in Romagna o nel Kent e che l’inquinamento mondiale sta pure assottigliando le banchise. Greenpeace fece ammenda pubblica, riconoscendo che le intenzioni di “interrompere lo sfruttamento commerciale delle foche era andato troppo al di là”, azzerando di fatto l’economia di sussistenza delle popolazioni. Strasburgo, esposta all’acre odore di carne di foca alla brace, arricciò invece le narici. Nel frattempo le foche, che mangiano ciascuna oltre duecento chili di pesce al giorno, si sono moltiplicate a dismisura mettendo in pericolo intere specie ittiche. Questo per dire che ha ragione il ceo di Gucci Marco Bizzarri quando annuncia, notizia di ieri, di aver firmato l’adesione dell’azienda alla Fur Free Alliance, l’organismo che riunisce le aziende dell’abbigliamento e del lusso “cruelty free” e nella quale il marchio entra peraltro fra gli ultimi e ben dopo Yves Saint Laurent (tanto per citare un’altra azienda del gruppo Kering) e Giorgio Armani. Le cose non sono però semplici, evidenti o chiaramente dicotomiche come sembrano. La pelliccia “non è moderna”, come dice Bizzarri con formula altamente modaiola (quando, nell’ambiente, volete dire che una cosa vi piace basta che usiate l’aggettivo “moderno” e tutto sarà lampante: il suo contrario è “antico”) e non ci sono dubbi che sia vero, nonostante Fendi produca meraviglie e i nostri laboratori di pellicceria d’eccellenza, basati perlopiù fra Lombardia, Marche e Abruzzo, abbiano permesso a intere comunità devastate dal terremoto di rimettersi in piedi.
Sul caldo tema delle pellicce e dei piumini sintetici la divisione fra buoni e cattivi non è però manichea come sembra, e che la “pelliccia non sia sostenibile”, come dicono molti, è un’idea del tutto errata. Purtroppo e ahinoi la pelliccia, essendo materia organica e da decenni trattata sostanzialmente senza agenti chimici invasivi per preservarne la morbidezza – è invece molto sostenibile. Nei decenni si decompone e scompare; se la seppellite lo fa anche in brevissimo tempo. I nostri simpatici piumini prodotti qui e là nel mondo e molto in Cina, invece no. Resistono in saecula seculorum. Quindi, mentre la IFF, l’associazione dei pellicciai, fa spallucce, forte dei dati 2017 in crescita (“sia Armani sia Gucci hanno sempre usato pochissima pelliccia: la leggiamo come una posizione di immagine, che peraltro comprendiamo”), ci aspettiamo a breve interventi della Peta a difesa di tutti gli animaletti, più o meno visibili, che perdono vita, habitat e possibilità di ruolo nella catena alimentare e nel grande cerchio della vita, per dirla in swahili, a causa degli scarti delle lavorazioni dei piumini. Come venirne fuori? Producendo di meno, consumando di meno, vestendo di meno. Non abbiamo bisogno di pellicce, da questa parte del mondo proprio per niente, ma non abbiamo nemmeno bisogno delle decine di tutine, maglioni di pile e dell’altra mercanzia ad alto tasso di sintesi di cui si scriveva nelle prime righe. La verità vera e inconfutabile è che semplicemente compriamo troppa roba e spesso troppa robaccia. Bona di Savoia che alla metà del Quattrocento andava sposa con un paio di cassoni di abiti e biancheria che le sarebbero bastati per buona parte della sua pur non lunghissima aspettativa di vita è il miglior esempio di sostenibilità che possiamo darci.
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