La moda che verrà
Il vasto mondo dei giovani creativi che si affermano all’estero o si emancipano dal grande marchio. Il difficile mestiere del talento
Per capire a quali difficoltà vada incontro oggi un giovane stilista che voglia farsi strada in Italia, vi basti la risposta data da Giovanna Passera ai colleghi corsi a informarsi sull’autore dell’abito fasciante rosso che sfoggiava alla Prima della Scala. “Roberto Capucci”, ha squillato, e non era vero o, per meglio dire, era vero solo a metà. L’azienda da cui usciva l’abito è registrata in effetti come Roberto Capucci srl, ma il suo direttore creativo, che ha quarant’anni e non ottantasette come il fondatore, si chiama Mario Dice e inizia ad avere grande successo anche con la sua linea eponima di cui vi era un magnifico esemplare, in chiffon rubino molto fotografato, alla stessa Prima. Il venerando Roberto Capucci, signore squisito che deplora la dipendenza del giornalismo italiano della moda dalla pubblicità esattamente come farebbe un trentenne e come vedremo fra poco, disegna infatti ormai rarissimamente, per occasioni e per donne molto speciali (l’ultima volta, l’ha fatto lo scorso ottobre per Margherita Puri Negri che andava sposa a Genova), e in ogni caso né lui né Mario Dice avrebbero mai accessoriato il suddetto fourreau rosso con lunghi guanti e una stola di pelliccia nera, abbinamento provinciale e un po’ televisivo d’antan, un po’ da soubrettona. Insomma, non si sa se alla causa di Mario Dice avrebbe fatto bene essere citato per un look come quello; quel che è certo è che Giovanna Passera non si è arrischiata a sostenere ufficialmente un nome non ancora noto anche alle massaie, forse nel timore che qualche quotidiano o rivista di gossip evitasse di citarla, e che questo destino attenda molte fra le nuove e davvero bravissime leve della moda italiana.
Noi italiani amiamo sempre andare sul sicuro: auto o moda che sia. Vogliamo che gli altri facciano "oh" quando riveliamo le insegne
All’estero e soprattutto in Inghilterra le cose funzionano diversamente, pensate se sarebbero mai riusciti a emergere Alexander McQueen o Christopher Kane senza Isabella Blow, Suzy Menkes o Gloria Guinness a scrivere di loro o a spendere qualche migliaio di sterline per i loro abiti quando erano degli emeriti sconosciuti. Noi italiani amiamo invece e sempre andare sul sicuro: assicurazioni, auto o moda che sia. Vogliamo che gli altri facciano “oh” quando riveliamo le insegne di chi ci nutre, ci veste e ci manda in vacanza. Abbiamo scoperto “i marchi” negli anni Ottanta quando, con tre soldi in tasca, volevamo mostrarci signori benestanti, e non abbiamo ancora superato la fase numero uno del consumo, quello della rassicurazione. Facciamo crasse ironie su Anna Netrebko e quel suo marito dalla voce possente e incerta che si veste in total look Dolce & Gabbana postandosi su Instagram ogni giorno avvolto in stampe a piastrelle di Caltagirone, ma tentenniamo davanti a un abito che, pur piacendoci moltissimo, avrà bisogno di spiegazioni di accompagnamento.
Il calendario delle sfilate organizzate dalla Camera nazionale della moda è sempre più ricco di nomi giovani davvero, venti-trentenni rispetto ai cinquantenni che qualcuno anni fa aveva il coraggio di definire “emergenti”, nomi come i Leit-Motiv, Vivetta, Arthur Arbesser, Salvatore Piccione, Diego Marquez e Mirko Fontana, tandem creativo di Au jour le Jour, Marco Rambaldi. Eppure, capita di trovarsi a cene di signore mediamente informate di tutto che dopo aver deplorato le scarse “opportunità per i giovani di questo paese” aggiungono scuotendo meste la testa come la moda non abbia più prodotto stilisti dopo Giorgio Armani, che è un po’ come concordare sul fatto, peraltro e purtroppo acclarato, che i programmi di storia contemporanea dei licei si fermino alla Seconda guerra mondiale. Questa scarsa curiosità di superare il nucleo delle griffe che sfilavano già nel 1979 e delle quali un paio sono passate di mano così tante volte da essere diventate irriconoscibili come Mila Schön (qualche settimana fa ho visitato il grandioso Archivio storico di Max Mara a Reggio Emilia e mi è stato messo sotto il naso il calendario delle sfilate milanesi di quell’anno), si riverbera inevitabilmente sugli acquisti in particolare su quelli reali, fisici, fatti nelle boutique, ormai frequentate da gente che di moda capisce di solito fino a un certo punto (chi sa compra infatti ormai molto sul web) e che dunque vuole essere rassicurata. Entra, si guarda attorno, scorre velocemente con le mani e con gli occhi fra gli scaffali e valuta il tutto per le griffe che riconosce. Un abito a duemila, mille o anche cinquecento euro che non porti l’etichetta di Prada o Armani viene difficilmente preso in considerazione dall’ignorante di moda anche se, come spesso accade fra i marchi degli stilisti più giovani e che si autofinanziano lavorando per queste stesse griffe come consulenti o anche dipendenti, il capo che ha davanti è cucito o addirittura dipinto e ricamato a mano, cioè e in buona sostanza dell’alta moda. Non fosse che a causa della crisi e dei minimi d’ordine proibitivi delle griffe (quelli di Gucci si dice siano diventati particolarmente impegnativi) negli ultimi anni i buyer si sono dovuti rassegnare a cercare marche giovani e volti nuovi a buon prezzo per riempire gli scaffali, un’attività faticosa e non sempre produttiva che passa sotto l’aulica e promettente locuzione del “fare ricerca”, nessuno dei marchi appena citati avrebbe mai trovato posto in una delle boutique che fanno parte dell’esclusivo circuito The Best Shops come per esempio Banner a Milano, Tiziana Fausti a Bergamo, Luisaviaroma a Firenze, Gente o Leam a Roma o ancora Parisi a Taormina. Quest’ultimo, per esempio, sta spingendo molto su nomi nuovi, ma ho visto con i miei occhi una cliente provarsi un abito da sera di semi-couture di un ragazzo che conosco a poco più di mille euro, che le stava benissimo, e poi optare per uno dei modelli Prada riprodotti sulla campagna pubblicitaria di questo inverno a oltre duemila. La propensione dei clienti italiani al rischio e lo scarso budget pubblicitario a disposizione per farsi notare e soprattutto per assicurarsi la presenza della stampa italiana, ormai e purtroppo definitivamente controllata dai propri uffici pubblicità sono i veri fattori competitivi critici per le nuove leve del settore.
Nelle boutique, gente che vuole essere rassicurata. Entra, si guarda attorno e valuta il tutto per le griffe che riconosce
Lo sono ben di più, osserva proprio Mario Dice, rispetto agli ordinativi minimi di un dato tessuto per garantirsene l’esclusiva o di un certo modello per potersene permettere la produzione, che fino a pochi anni fa erano fattori dirimenti. “Anche un imprenditore piccolo come me”, dice, “riesce a compensare questi aspetti pur rilevanti del business se, avendo magari alle spalle anni alle dipendenze di un grande marchio, è riuscito ad acquisire la conoscenza dei produttori, dei distributori e in generale dei meccanismi che regolano questo business. Ma competere senza investimenti plurimilionari per campagne pubblicitarie ed eventi è diventato molto difficile”. Lui, pugliese, laurea in Lettere e molti diplomi per attività manuali come il ricamo, la ceramica e la pittura conquistati a suon di borse di studio perché la famiglia non avrebbe potuto permettersi di sostenerne nemmeno uno, ha iniziato la propria carriera quasi vent’anni fa negli Stati Uniti, dapprima da Calvin Klein e quindi da Donna Karan; rientrato in Italia grazie a Micol delle Sorelle Fontana, è passato via via sotto le insegne di Gattinoni, di Trussardi, di Mourad e Mugler, alternando sempre alta moda e pret-à-porter fino ad approdare da Philosophy sotto la direzione creativa di Lorenzo Serafini che, per molti motivi e a voler escludere l’attuale per Roberto Capucci che però è gestita quasi in totale autonomia, è stata anche l’ultima che abbia voluto tollerare. Nel contempo, affiancato dal compagno Simone Cereda, nel 2007 ha aperto la sua attività, portandola in dieci anni a un milione e mezzo di fatturato e settantasette negozi serviti, di cui buona parte, appunto, all’estero. Osserva che gli editori italiani sono davvero poco lungimiranti a non investire sui giovani come facevano un tempo. Con ogni probabilità non legge i bollettini di guerra che noi ci scambiamo ogni giorno, altrimenti saprebbe che vi sono testate di moda che ormai tentano di campare non solo senza stilisti emergenti e di scarso potere economico, ma anche senza giornalisti, formando figure para professionali di pennivendoli a comando che ogni tanto non azzeccano nemmeno la consecutio, figurarsi saper distinguere fra organze e ottoman di seta come vorrebbe lui e come, in effetti, era fino a pochi anni fa, quando di moda scriveva Adriana Mulassano e non un nickname sotto il quale si cela una ventenne a propria volta a caccia di ingaggi pubblicitari e di abiti gratuiti da sfoggiare su Instagram.
Mario Dice: “Competere senza investimenti plurimilionari per campagne pubblicitarie ed eventi è diventato molto difficile”
Eppure, e per tutte queste ragioni apparentemente negative, qualcosa si muove davvero. Vivetta Ponti, che a dispetto della creatività accentuata e talvolta surreale dei suoi capi parla per luoghi comuni, osservando come si debba “continuare a credere in se stessi e perseverare nonostante tutto” (yawn) ritiene infatti che il quadro competitivo sia migliorato rispetto a dieci anni fa, cioè negli anni in cui lei lavorava ancora per Roberto Cavalli, ma che senza continuare a dimostrare di avere “personalità si rischia di rimanere schiacciati dalla concorrenza”. A lungo “criticata per la mia ossessione nei riguardi delle tonalità pastello”, di recente questa ragazza toscana ha iniziato a vestire qualche celebrity alle serate cinematografiche importanti di Londra e Los Angeles grazie a una accorta politica di pubbliche relazioni internazionali, ma se doveste chiedere di lei a una delle famose cene milanesi e romane vi risponderebbero Vivetta chi? e come Renato Balestra nessuno mai. Per questo, e sebbene l’apprendistato anche decennale presso una grande azienda di moda si dimostri sempre più necessario per rubare, oltre ai programmatici segreti del mestiere, anche i numeri dei fornitori migliori e a imparare come trattarli, qualcuno trova il coraggio per farlo solo quando il destino lo ha già fatto per lui. E’ il caso di Andrea Ciaraldi, una vita fra le mura di palazzo Perego in via Borgonuovo, sede della Giorgio Armani, quindi direttore creativo della linea Armani Privé fin dalla sua nascita nel 2005 e dunque alle origini del suo successo, che solo grazie alla fiducia incondizionata di Hillary Clinton ha deciso di trasferirsi in via definitiva negli Stati Uniti, trovando però subito una nuova collocazione in Ralph Lauren. Altri non reggono invece alla pressione e ai rischi della competizione intra muros, tipica delle grandi griffe, e rientrano alla base dopo qualche stagione, come ha fatto Fabrizio Minardo: notato da Stefano Gabbana, talent scout di vista lunga, nel 2015 lasciò il suo piccolo e per ragioni anagrafiche nuovissimo atelier di Ragusa Ibla per gli uffici di via Goldoni a Milano, in quegli anni frequentati ancora anche da Marco Rambaldi. Qualche mese fa, “sentendomi un numero”, come ha dichiarato a Sicilia Live, ha fatto nuovamente le valigie, e con il gruzzoletto messo da parte ha acquistato due nuovi macchinari, riaprendo l’atelier di via degli Oleandri, nella sua città. Agli inizi di dicembre, le amiche di palazzo Donnafugata gli hanno aperto i saloni per una sfilata molto applaudita ancorché, osservandola dai video diffusi nell’occasione, si potrebbe osservare che l’impronta D&G è molto evidente e che qualche stagione in più nelle brume milanesi gli avrebbe permesso di smarcarsi un po’ dall’immaginario del bustino scollato a cuore e dei simboli più classici della Sicilia a partire dagli ex voto, però bisogna ammettere, come ha fatto lui mostrando un’ingenuità davvero accattivante, che se non altro “a Ragusa non ho molta concorrenza” e che “fuori mi perderei in un bicchiere”.
La competizione non è per tutti anche se, a leggere le biografie degli Armani, dei Versace e anche quelle brevi di questi ragazzi intenzionati a emularli, pare che la formula per il successo sia sempre la stessa: lavorare senza smettere mai. Anzi, per dirlo con la formula di moda oggi “come se non ci fosse un domani”. Anche se il domani è proprio quello che si persegue.
generazione ansiosa