Così i boicottatori anti Israele si scatenano anche nel mondo della moda
Un artista libanese di fama mondiale, Elie Saab, veste una modella israeliana, Gal Gadot, che viene attaccata: "Perché indossi i suoi abiti?"
Elie Saab è uno stilista libanese, il primo straniero a essere accettato dalla Camera nazionale della Moda nel 1997. Il suo stile romantico, mix di forme occidentali e dettagli mediorientali, ha conquistato reali e celebrità. Quando Rania di Giordania venne incoronata nel 1999 scelse di indossare un suo abito. Nei primi anni 2000, Saab ha iniziato a spopolare a Hollywood.
Non sorprende dunque la scelta di uno degli astri nascenti del cinema a stelle e strisce, Gal Gadot, di indossare un capo di uno degli stilisti più rinomati nel jet set internazionale, un personaggio che offre lustro a tutto il Libano. C’è però un problema. Gadot è israeliana. Non solo, è stata vincitrice di Miss Israele nel 2004 e tolta la coroncina, due anni dopo è andata a prestare servizio militare come istruttrice di combattimento nell’IDF, le Forze di Difesa israeliane. Degli anni di naja, l’attrice si è sempre detta entusiasta, raccontando come l’abbiano aiutata a sviluppare “disciplina e rispetto” e altre qualità utili per la sua carriera cinematografica. Una carriera in cui è all’apice, dopo i successi in “Fast and Furious” e “Wonder Woman”.
Gadot ha deciso di indossare un abito azzurro di Saab al gala del National Board of Review. Il brand ha postato sul proprio profilo Instagram la foto dell’attrice israeliana, come da consuetudine quando un vip sfila sul red carpet. Tutto normale, se non fosse che Saab viene da un paese arabo che è teoricamente in guerra con Israele da decenni. Ecco dunque scatenarsi gli intellettualoidi indignati, come la presentatrice televisiva di Beirut Heba Bitar che ha twittato: “Amo e rispetto Elie Saab, ma è davvero felice che un’attrice israeliana vesta un vestito disegnato da lui?”. La foto ha suscitato polemiche e dopo pochi minuti è stata rimossa dal profilo. Farah Shami, altra produttrice di una televisione all news, scrive: “Non è un problema che lei vesta Elie Saab, ma ho un problema con il fatto che il suo profilo pubblichi la foto e se la tiri perché un'ex soldatessa israeliana indossa i suoi abiti! Non rovinate una delle poche cose che ci rende fieri di essere libanesi!”.
Non è la prima volta che il boicottaggio anti-israeliano colpisce il mondo della moda e del cinema. Il brand di lingerie Victoria’s Secret è nel mirino del movimento BDS perché si rifornisce dall’azienda di abbigliamento israeliana Delta Galil. Stessa sorte per i grandi magazzini britannici “Marks & Spencer’s”, legati “a doppio filo al sionismo” e a Estée Lauder, il cui presidente emerito Ronald Lauder è leader del Congresso ebraico mondiale.
La stessa Gadot ha visto il proprio film “Wonder Woman” bandito dalle sale libanesi nel 2017, dopo che il ministro del Commercio l’anno precedente non riuscì a bloccare “Batman v Superman” che vedeva la stessa attrice nel cast. Sempre “Fast and Furious”, della stessa Gadot, e altre pellicole con la connazionale Natalie Portman arrivarono senza problemi nei cinema. Paradossale che anche l’ultimo film di Steven Spielberg, “The Post”, proprio sul tema della libertà di stampa, sia stato bandito per i “legami con Israele” del regista, così come “Jungle”, il film con Daniel Radcliffe ambientato nella giungla boliviana, perché basato sulla biografia dell’israeliano Yossi Ghinsberg.
Un governo e un’opinione pubblica ficcanaso che vietano, bandiscono e mettono alla gogna prodotti culturali non solo creati, ma anche solo influenzati o fruiti da altre persone perché di diversa religione o nazionalità, gettano le fondamenta dei totalitarismi più imbruttiti. Ci rifletta Beirut, se vuole continuare a fregiarsi del titolo di “Parigi del Medio Oriente”.
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