Addio a Hubert de Givenchy, l'eterno apprendista
Lo stilista francese è morto all'età di 91 anni. Ebbe una sola musa, anzi un solo sodalizio: Audrey Hepburn. Una volta gli domandarono quale fosse per lui la chiave del successo. Disse: “L’amicizia”
Della morte di Hubert de Givenchy, novantuno anni, comunicata nel primo pomeriggio del 12 marzo dal suo compagno di una vita, Philippe Venet, ma avvenuta nella giornata di sabato 10, una cosa colpisce molto, ed è lo scarto temporale fra il fatto e la sua comunicazione. Il décalage, per dirla come avrebbe fatto lui, con quella voce perfettamente modulata che ti ammantava di incanto, facendoti raddrizzare le spalle, un po’ per poter accorciare la distanza fra la tua e la sua, ragguardevole, altezza, un po’ per rispondere almeno con la postura a quel concentrato di educazione e di charme ancien régime.
I due giorni di distanza fra la morte di Givenchy, avvenuta nel suo castello alle porte di Parigi, il Manoir du Jonchet, e la raffica di take, post, articoli che ci stiamo affannando a scrivere due giorni dopo, quando la famiglia e “la maison Givenchy”, cioè Bernard Arnault e il gruppo LVMH, proprietario della griffe dagli Anni Novanta, hanno deciso che è giunto il momento di dare in pasto a noi dei media la notizia, sono la dimostrazione più lampante che il potere di Instagram, di Twitter e degli spaventosi blog che tutto saprebbero e ogni immagine pubblicherebbero immantinente per una manciata di like è assolutamente nullo. Vale zero.
Si può ancora decidere quando e come morire (“monsieur de Givenchy s’est éteint dans son sommeil”, nel sonno, recita l’annuncio ufficiale), anche se si è uno dei quattro couturier più famosi del Novecento e, dunque, figura pubblica. Fra i tanti regali che monsieur de Givenchy ci ha fatto, questo non è certamente il più piccolo. “Eterno apprendista”, come amava definirsi, da più di vent’anni si occupava personalmente e quasi esclusivamente delle sue case, dei suoi cani, della sua meravigliosa collezione d’arte, andata parzialmente all’asta di recente compresa una meravigliosa scultura di Diego Giacometti (l’“altro” Giacometti, di cui è pieno il Musée Picasso) e dei suoi fiori, che curava con dedizione e con quel genere di competenza che appartiene ai giardinieri di professione o ai grandi aristocratici.
Uomo elegante al punto che la lista annuale dei “best dressed” di Vanity Fair l’aveva fatto assurgere alla Hall of Fame per liberare finalmente il posto sul podio, Givenchy aveva smesso di recarsi ogni giorno in atelier alle 7 precise, come aveva fatto dal primo giorno della sua avventura à solo, nel 1952 e dopo un lungo apprendistato da Cristobal Balenciaga, quando “i bulldozer dell’industria” avevano preso possesso di un mondo che non riconosceva più e che, ovviamente, ancor meno gli interessava.
Aveva ceduto la maggioranza al più potente di loro, seguendo le evoluzioni della sua celeberrima maison fra le mani di stilisti diversi che, quasi sempre, sulla sua eredità e il suo archivio avevano rischiato di lasciare le penne: John Galliano, poi di straordinario successo da Dior; Alexander McQueen, riuscito successivamente ma a capo della propria impresa; Julien McDonald, di cui ricordo un défilé ossequioso al limite della banalità che Givenchy, seduto in prima fila, accolse con il sorriso fisso, figé, dei disperati (l’inglesino sparì nel giro di poche settimane). Gli piacque l’inventiva forte e dark di Riccardo Tisci, non a caso rimasto a capo dell’atelier Givenchy per dodici anni, e credo che iniziasse ad apprezzare il lavoro umile e rispettoso, ma non pedissequo, di Clare Waight Keller, nominata direttore artistico della maison esattamente un anno fa, che aveva bussato alla sua porta a lungo prima di essere ricevuta.
Si dice che lui avesse accettato di condividere i “fondamentali” del suo stile: né troppo, né troppo poco. Precisione chirurgica negli effetti e nella linea; mai esagerare invece con i decori, i ricami, un fiore appuntato qui, una cascata di cristalli là, detestabile paccottiglia kitsch. Nonostante avesse vestito le donne più belle e famose del Novecento, da Marella Agnelli alle due Jacqueline del secolo, Kennedy e De Ribes, aveva avuto una sola musa, anzi un solo sodalizio: Audrey Hepburn. Quasi ogni libro di storia della moda racconta le modalità del loro primo incontro: lei, la giovane promessa di Hollywood, che appena ottenuta la scrittura da Billy Wilder torna in Europa, suona alla porta dell’atelier parigino dell’altrettanto giovane idolo della moda, si fa annunciare e viene ricevuta subito perché scambiata per “l’altra” Hepburn, la ben più famosa Katharine. Quel che si conosce meno è il seguito della storia. Hepburn scelse pochi capi della collezione, l’unica disponibile, per “Sabrina”, ma l’Oscar per i costumi andò alla terribile costumista en titre degli studios, Edith Head, che fece il diavolo a quattro perché il nome del rivale francese non fosse citato neanche nei titoli di coda (fra Hollywood e Parigi c’è una partita aperta da quando Mgm e Paramount chiamarono Coco Chanel e Elsa Schiaparelli fra gli Anni Venti e Trenta del Novecento).
Lui, grand seigneur, fece finta di nulla, convinto che il suo momento sarebbe arrivato poco dopo, come in effetti fu. Potete anche non sapere niente di moda e continuare a ritenerla una delle tante espressioni della vanità umana anche se vostra zia ha campato di ago e cartamodelli fino a novant’anni, ma cionondimeno conoscete a memoria l’abito che Audrey Hepburn indossa nella prima inquadratura di “Colazione da Tiffany”. Tutte le donne da allora hanno desiderato possederne una copia, pur sapendo che, senza quelle scapole ossute e quelle spalle modellate dalla danza, l’abito non “cadrebbe” nello stesso modo, né farebbe la stessa figura. C’è una foto che ritrae la povera marchesa Casati Stampa alla Prima della Scala, seguita dal marito che qualche anno dopo le avrebbe sparato: indossa un vestito pressoché identico a quello della Hepburn ma, paffuta com’è, si stenterebbe a riconoscerlo come tale. Il rapporto fra la musa slanciata, allegra e appena espiègle, pazzariella, sarebbe durato fino alla morte di lei, nel 1993. Givenchy le era vicino, e le tenne la mano fino all’ultimo. Una volta gli domandarono quale fosse per lui la chiave del successo. Disse: “L’amicizia”.
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