Vestiti da ometti
La moda bambino torna al “mini me”, versione ridotta degli abiti di mamma e papà. E affiorano ricordi di sofferte eleganze
Verso il 1840, dunque con ottant’anni di ritardo rispetto alla data di pubblicazione dell’Emile di Jean-Jacques Rousseau ma con tempistica perfetta su quelli del Vittorianesimo che voleva attribuire ogni virtù d’innocenza all’infanzia che sfruttava senza remore nelle miniere, i bambini smisero di vestire come piccoli adulti, e si iniziò a pensare un abbigliamento adatto a loro e al loro naturale desiderio di movimento. Con qualche rigidità di forma e di pensiero (il primo abito “per bambini” fu un’elaborazione della divisa da marinaio, collettoni compresi), la moda infantile si è evoluta fra salopette, shorts, e tutine di spugna “babygro” fino a oggi. Quando ha deciso di tornare agli stili e alle espressioni che si osservano nei ritratti di van Dyck e di Velázquez. Modello Las meninas. Nel mondo ancora relativamente felice che, vivendo già dalla parte giusta della barricata può semplicemente indignarsi per le immagini dei bambini strappati dai poliziotti dell’amministrazione Trump alle madri che varcano illegalmente la frontiera con il Texas, l’ultima tendenza, cavalcata ambosessi, è infatti il “mini me”, cioè ed esattamente l’ometto che credevamo scomparso con la Rivoluzione francese e definitivamente sepolto con il Sessantotto.
A Pitti Bimbo, in corso a Firenze, molto frequentata la sezione “Apartment”, con completi su misura per preadolescenti
Infantilizzazione dell’adulto? Adultizzazione del bambino? Tesaurizzazione e difesa a oltranza di entrambi, compreso lo spregio per ogni forma di disciplina che esuli da quella approvata dai genitori? Vedetela come volete. Però, mentre i millennial esplorano l’estetica no gender e il commercio no season, cioè a-stagionale (all’ultima sfilata di Prada non si riusciva davvero a capire quale stagione si stesse vedendo in passerella: è pur vero che il mondo è tondo e che adesso in Australia nevica, ma una scansione temporale bisogna pur darla, se non altro per orientare chi scrive e giustificare chi compra), fra Pitti Bimbo e le sartorie maschili di alta levatura sta tornando di moda il tipo del “Blue boy” di Gainsborough o il taglio “princesse” di moda fra le bambine della Belle Epoque, busto lungo e ampia fascia sui fianchi a fermare il gioco di pieghe, ammirato un paio di giorni fa al museo della maison Daphné di Sanremo, che raccoglie i lasciti di un’intera generazione di russi in fuga dalla rivoluzione. Questo processo avviene con altri obiettivi e una percezione dell’infanzia ben diversa rispetto a quella di tre secoli fa, senza alcun dubbio, ma forse non ci aspettavamo di vedere nuovamente, adesso, una moda per bambini che guarda in maniera così plateale a modi e stili classici e a discipline che ogni altro indicatore sociale ci indicava come desuete. Tutte le griffe, da Alberta Ferretti a Isaia, stanno infatti realizzando completi per bambini che, pur con l’obiettivo di rispettare le proporzioni e lo stile di vita dei piccoli, cioè la loro necessità di muoversi senza impacci, sono la versione ridotta degli abiti che indossano le loro mamme o, principalmente, i loro papà.
Fra i 572 marchi presenti all’ottantasettesima rassegna Pitti Bimbo, ancora in corso alla Fortezza da Basso in sostituzione di Pitti Uomo che ha chiuso i battenti dieci giorni fa, è molto frequentata la sezione “Apartment”, che l’ufficio stampa definisce “l’anima luxury del sartoriale contemporaneo for kids”, cioè abiti su misura per preadolescenti. Tutto il settore della moda bambino registra però performance addirittura migliori rispetto a quelle della moda donna, con un fatturato 2017 in crescita del 3,6 per cento a 2,8 miliardi di euro e un export in aumento quasi del 6 verso i paesi di classica destinazione della nostra moda, come gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi e il Regno Unito, che non significa cittadini anglosassoni, storicamente poco propensi a vestire i propri piccoli con dispendio di denaro e di impegno, bensì i russi e, ancora, gli emiratini e i sauditi trasferiti nella capitale britannica. Non a caso, quando gli si chiede per quale motivo abbia lanciato una linea di abbigliamento formale e, volendo, su misura per bambini, Gianluca Isaia mostra l’immagine di Liev Schreiber con il figlio Kai sul red carpet degli Emmy Awards 2017 “in matching Isaia suits”, cioè in smoking identici. L’idea di creare una linea di abiti “per piccoli adulti brillanti, ricchi di humor e di voglia di divertirsi”, gli è venuta a seguito della valanga di richieste seguite a quella foto e, ammette con un sorriso, al “divertimento degli stessi bambini a vestirsi come il babbo: di solito stanno fermi e buoni a farsi prendere le misure dal sarto perché prendono le sessioni come un gioco. E poi, una volta vestiti, ricevono un sacco di complimenti”.
Il settore registra performance migliori rispetto a quelle della moda donna: il fatturato 2017 è cresciuto del 3,6 per cento a 2,8 miliardi di euro
Ho il sospetto che i primi a divertirsi siano i genitori, e lo scrivo per esperienza diretta. Ricordo ancora con amarezza, e un vago senso di imbarazzo, le ore di sonno perdute per allacciarmi un paio di stivali al ginocchio con i gancetti, molto di moda nei primi anni Settanta, che mia madre volle farmi fare identici ai suoi, e parimenti abbinati a una mantella in tweet grigio blu e il dolcevita in angoretta. Una vergogna sconfinata. L’effetto mini-me, bambola vivente, accanto alla mia mamma dai capelli rossi e le tinte solari, a cui stavano benissimo colori che rendevano me livida e smunta, non mi divertiva per niente né in inverno né tanto meno in estate, quando mi toccavano certi vestiti in piquet bianco con gli oblò sulla pancia, a imitazione della moda di Loris Azzaro come avrei scoperto decenni dopo, scomodissimi per saltare la corda con le amiche scandendo “arancia, limone, mandarino”. Agognavo gli shorts e le Lacoste che, invece, mi erano consentite solo per giocare a tennis (malissimo, peraltro). Il mio guardaroba era una quaresima di eleganze bon ton: gli infradito con la suola in cuoio, certo più salubri e chic delle ciabattine in gomma, chi lo nega, ma anche parecchio più scivolosi (in memoria, porto ancora i segni delle tremende sbucciature sulle ginocchia). Quando, qualche anno fa, una sconosciuta ha dimenticato nello spogliatoio del centro sportivo che frequento un paio di flip flap di gomma viola con un grosso fiore di plastica innestato alla confluenza fra alluce e illice, non ho resistito e glieli ho presi in prestito per settimane: non avevo mai trovato il coraggio di comprarmeli, ma aspettavo quel momento kitsch da quarant’anni. Grazie infinite, signora sconosciuta, che mi ha permesso di saldare il conto con l’amica Marina dei bagni Nettuno, felice proprietaria di ciabattine similari, rosa, che osservavo rapita, agognando il momento in cui mia madre avrebbe ceduto e come non ha mai fatto.
I marchi di moda per bambini c’erano già allora, Céline da ben prima della mia nascita e anche Petit Bateau che in effetti è centenario, ma in generale i bambini non vestivano griffe, tanto meno con i loghi a vista. Per gli abitini a punto smock, si andava a Firenze. Di salopette, le celeberrime Osh Kosh B’Gosh di cui successivamente avrei vestito mia figlia fino allo sfinimento di entrambi, capi e bambina, neanche a parlarne.
Arrivate alle medie, noi ragazze vivevamo anche in termini vestimentari il dramma dell’età di mezzo, quella in cui non eravamo più costrette a indossare la gonna a pieghe con i calzettoni, retaggio della generazione pre-sessantottina, ma non di meno non ci erano consentiti gli abiti un po’ delurés, sfacciatelli, delle sorelle maggiori. Si ondeggiava, disorientate, un giorno in gonnellona e zoccoli evitando di farsi stanare dalla mamma in ascensore, dove ci cambiavamo in fretta e furia, e uno in cappotto con gli alamari modello Yves Saint Laurent, regalo odiatissimo e averlo adesso, accidenti. Per la cresima, tutte vestite uguali per non mettere in evidenza eventuali differenze economiche: blazer blu e gonna grigia a pieghe. Ora che i maestri vengono trattati a calci peggio di Giuseppe Parini, in materia di abbigliamento genitori e figli possono invece scegliere a seconda della propria personalità come credono meglio e come il portafoglio e/o la vanità dei primi consente, e se si devono marcare differenze di ceto o di censo meglio.
L’effetto mini me, accanto alla mia mamma a cui stavano benissimo colori che rendevano me livida e smunta, non mi divertiva per niente
A Pitti Bimbo ci sono marchi per piccoli contestatori (Dondup, Bikkembergs, Gardner and the Gang), bambolotte per bene (Monnalisa), dissipatori di paghette (un’intera sezione, Fancy Room, traboccante di oggetti, occhiali, cosmetici, seggioline e tavolini). Il paradiso del piccolo consumatore, ben instradato e meglio vestito. Nella sezione dei principini a cui si accennava prima, Apartment che fa già un po’ riservato, stanza dei giochi e boudoir della mamma, i marchi in esposizione hanno nomi evocatori che strizzano l’occhio ad antichi benesseri: Amélie et Sophie; Belle enfant; Piccola Ludo; Atelier Choux Paris, cioè l’atelier dei cavoli, forse in memoria della famosa filastrocca che si insegnava un tempo ai bambini: “Savez vous planter les choux / à la mode de chez nous”: quando bisogna tirar fuori le trine o piantare i cavoli, la Francia ha sempre del suo da dire, anche se viene confezionata sulle alture di Varese, com’è spesso il caso. Lo stilista Alessandro Enriquez, trentenne e dunque un bambino per gli standard della moda nazionale, ha portato in Fortezza un suo concept, Kid’s Evolution, slogan “dalla moda per grandi alle capsule in formato mini”, dedicato a designer che fanno ricerca nel mondo dell’adulto e “creano capsule ad alto potenziale creativo”, cioè che affinano il concetto del mini me. DSquared2 fatto le cose in grande, organizzando cioè inscenando un emozionante ballo di fine anno, molto in linea con l’origine statunitense dei due direttori creativi e i loro trascorsi di animatori delle notti di Riccione.
Il gusto e i vari scopi del vestirsi sono un’attività a cui i padri paiono educare i figli maschi in misura maggiore di quanto facciano le donne
“La differenza in quanto al vestire fra l’uomo sensato e lo sciocco è che lo sciocco si stima in proporzione al suo vestito, e l’uomo sensato se ne ride ancor che sappia al tempo stesso che non deve trascurarlo”, scriveva nel 1750 Lord Chesterfield al figlio Philip nel suo celebre compendio di ammonimenti all’uso di mondo di cui Samuel Johnson ebbe a dire che “insegnavano la moralità di una puttana e le maniere di un maestro di ballo”, ma che forse, proprio per questo, non pochi ritengono tuttora un’utile guida all’arte del campare, al punto che un editore di guide finanziarie ne pubblicò una copia anastatica della prima edizione qualche anno fa, come dono e pregevole lettura per i suoi nuovi abbonati. Il gusto e i vari scopi del vestirsi sono infatti un’attività per la quale i padri paiono educare i figli maschi in misura maggiore, più specifica e più precisa di quanto facciano le donne e come la tendenza mini me nel 2018 dimostra.
Nelle famiglie borghesi di un tempo, la cura del proprio guardaroba veniva insegnata ai ragazzini fin dalla tarda adolescenza, e si completava con il taglio del primo morning suit, il tight, e della prima dinner jacket, cioè lo smoking. Talvolta, come nel caso molto narrato di Lapo Elkann, erano quelli del nonno, riadattati e rinfrescati e come tali portati con orgoglio, quale segno del benessere di lunga data della famiglia e del suo amore per le tradizioni. “Era un genere di percorso che iniziava negli anni del servizio militare”, dice Franz Botré, editore di una rivista che è una sorta di club dell’eleganza maschile, Arbiter, e che credo reintrodurrebbe il servizio di leva solo per amore della disciplina e del senso di appartenenza che dava ai ragazzi.
Il pensiero che sottende alla nuova moda del mini me è in parte questo: il senso di identificazione, di riconoscibilità; condividere un progetto comune che, decaduti per molti giovanissimi non solo il servizio militare ma anche l’impegno allo studio (in Italia i neet, cioè i ragazzi che non lavorano né studiano né si impegnano in raggiungere un obiettivo di vita attiva, rappresentano il 25,7 per cento dei quindici-ventiquattrenni, il dato più alto dell’Unione europea, a cui fa da contraltare un timidissimo aumento di giovani occupati nel 2017, non di rado in attività auto-generate, ad alto potenziale creativo), trovano sostituzione nella logica del gruppo e dei suoi segni esteriori, compreso l’abbigliamento o la creazione, molto maschile, del club. Per l’ultima edizione di Pitti Uomo ho voluto assistere a una delle riunioni periodiche che Arbiter organizza nel suo spazio alle Costruzioni Lorenesi con i produttori di tessuti e i sarti: seduti ad ascoltare una lezione su pesi e trama, lucentezza e cura delle lane estive c’era almeno una cinquantina di uomini, tutti giunti appositamente a Firenze, di cui almeno tre sotto i vent’anni, attentissimi, in giacca e cravatta di seta sotto il completo di lino. Non riesco a immaginare qualcosa di simile fra ragazze.
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