Fare moda a Teheran
Non è meno sovversivo che leggere “Lolita”. Donne al lavoro in patria e saggi di stile iraniano a un corso di laurea magistrale alla Sapienza
Fra gli otto designer selezionati da Javad Sedghamiz per lavorare alla sua “Persian Idea Mode Artech”, hub di moda, supporto media e di ricerca tecnologica ed ecosistema artistico nato a Teheran all’inizio dell’anno con il sostegno della sua potente famiglia di industriali del tessile, cinque sono donne. Sedghamiz, dall’aspetto decisamente più maturo dei suoi trentaquattro anni dichiarati, è arrivato a Firenze per presentarne le creazioni, e nella brochure in carta patinata che viene messa a disposizione alla fine dell’incontro, le stiliste sono fotografate con la hijab nera di prammatica e i principali dati anagrafici che le riguardano: hanno fra i ventisei e i cinquantacinque anni e, come si può scoprire cercando fra i loro profili web redatti in lingua inglese, hanno tutte studiato moda all’estero. Una di loro, Sahar Jaberian, nata nel 1990, dopo aver frequentato l’Istituto Marangoni a Parigi è rimasta nella capitale francese, lavorando a una sua linea di moda oggettivamente molto cool che sul suo profilo Instagram, dove spesso appare con le amiche non velata, presenta come “un brand di slow fashion indipendente focalizzata sul comportamento di sistemi dinamici altamente sensibili alle condizioni iniziali“, qualunque cosa voglia dire anche se sospetto che il senso risieda nell’ultima parte della frase, cioè nelle “condizioni iniziali”. Un’altra, Azadeh Asgari, poco più che trentenne, ha un profilo Instagram seguito da circa 30 mila follower: vi compaiono tutte le baffute e muscolose celebrità che lei, zigomi alti slavi, occhi da cerbiatta, veste in Iran con uno stile di certo lontano dal gusto dei loro omologhi europei, ma in cui qualcuno potrebbe ritrovare le prime lezioni fra gli affreschi dei kandys colorati della corte di shah Abbas.
Poco più che trentenne, Azadeh Asgari veste baffute e muscolose celebrità con uno stile lontano dal gusto dei loro omologhi europei
Lo sviluppo dei curricula di queste ragazze dalla doppia immagine di cui l’islam è lo spartiacque, è non troppo sorprendentemente simile: facoltà di ingegneria o architettura in Iran, master all’estero in moda. Destinazioni preferite: la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, l’Italia. In genere prediligono la cultura europea, e non certo a causa delle limitazioni all’ingresso imposte dall’amministrazione Trump o lungamente accarezzate da alcuni fra i suoi predecessori. Ricercano affinità artistiche e filosofiche nelle quali l’approccio americano agli studi in humanities, molto focalizzato e poco trasversale, fatica a trovare punti di contatto, com’è molto evidente anche nelle classi multiculturali che iniziano ad affollare le università italiane. In Sapienza, dove la comunità di studenti di origine iraniana è particolarmente numerosa, al corso di laurea magistrale in Fashion Studies, che si tiene in lingua inglese, ne sono iscritti quasi venti e possiedono tutti, ma perlopiù tutte, una laurea in architettura. In Iran (o Persia, come molti di loro ti chiedono di definirlo) non esistono infatti corsi di studio in moda o finalizzati alle professioni che noi consideriamo creative: si può diventare sarti, ma non designer. Per fare questo, come molti vorrebbero, bisogna necessariamente emigrare (ogni paese al mondo potrebbe lamentarsi della “fuga di cervelli”, ma solo noi lo facciamo in modo ossessivo e ridicolo) e, dunque, avere alle spalle non solo una famiglia benestante, ma innanzitutto una famiglia di cultura aperta. Fare moda significa infatti entrare in contatto con sconosciuti e, necessariamente, toccarli.
In Iran il giro d’affari del settore abbigliamento è pari a 15 miliardi di dollari, un ottavo circa rispetto a quello italiano
Questa del toccarsi fra sessi diversi, atto banalissimo nella moda dove chi prova i vestiti o li indossa su una passerella si chiama “manichino” o “modello” e viene maneggiato, vestito e truccato come una bambola animata e dove il sesso non è di certo l’elemento di attrazione principale, se si considera che assistere a certe sfilate è come osservare una processione di replicanti, è una questione che nel corso del mio incontro con il giovane signor Sedghamiz in missione europea si rivela dirimente. L’articolo che state leggendo, e di fondo la stessa “Persian Idea”, nasce infatti attorno al gesto di una mano tesa e dimentica, la mia, lasciata a mezz’aria da chi avrebbe molto voluto stringerla e non poteva permetterselo, il signor Sedghamiz. Non ancora, e certamente non in pubblico. Fare moda a Teheran è tuttora un gesto più sovversivo di leggere Lolita fra quattro mura di casa e fra sole donne. Se questo ragazzo, già sposato e padre come si conviene, ha deciso di investire una quota non irrilevante del pur ragguardevole patrimonio familiare in un progetto in cui entrano in gioco temi specificamente invisi a uno stato teocratico come l’esaltazione del sé, la personalità, lo scambio artistico e culturale e la parità fra sessi è perché, nonostante tutto, il peso della famiglia Sedghamiz e la sua posizione sono – se non garanzia assoluta – almeno un discreto viatico per la riuscita di questo progetto di factory che prevede un prossimo avamposto a Milano e una serie di presentazioni a Parigi. Pare che credano in molti, al signor Sedghamiz, in questo paese dove Facebook e Google, facilmente intercettabili, vengono frequentati pochissimo, e tutti gli scambi di informazioni fra giovani avvengono via Instagram e Telegram, molto più difficili da decrittare e bloccare. Non è dunque per caso che accanto a Javad e al suo interprete, in queste settimane stiano viaggiando per l’Italia un paio di artisti iraniani che vivono a Milano, fra cui il brillante Mahmoud Saleh Mohammad, ideatore di un recente video per lo stilista Antonio Marras, che ha fatto del suo atelier, aperto nell’ex “Camerun” di viale Bligny, un tempo luogo di incontri equivoci e di spaccio, uno spazio dal nome volutamente antitetico e, dunque provocatorio: Noor, cioè luce. E’ lo stesso Mahmoud a spiegarlo, davanti a una granita siciliana alla mandorla e caffè qualche giorno dopo la sfilata che Persian Idea ha organizzato sulla terrazza dell’hotel Baglioni di Firenze: “Siamo in molti, a seguire Javad in questa impresa, e non necessariamente siamo tutti legati al progetto di diffusione della moda. Se l’Iran vuole fare passi avanti, e noi venti-trentenni vogliamo assolutamente che questo accada, la moda e la creatività sono una leva importante. Ma dobbiamo stare attenti al linguaggio che usiamo, compreso quello non verbale”.
La moda come leva e gesto rivoluzionario è un processo che l’occidente conosce dai tempi biblici e che può dunque condividere, e non a caso, da questa parte del Mediterraneo, Persian idea, e la generosità di mezzi Sedghamiz la sostiene, ha già destato però parecchio interesse. In Iran, dove la crisi economica, un’inflazione al 55 per cento e l’abile gioco di Donald Trump sul mercato del petrolio hanno portato a una serie di proteste partite dai “bazari”, i mercanti del Bazaar che quasi quarant’anni fa sostennero la rivoluzione khomeinista e che dunque stanno mettendo in allarme il presidente Rohani, il giro d’affari del settore abbigliamento è pari a quindici miliardi di dollari, un ottavo circa rispetto a quello italiano, ma le esportazioni non superano i 150 milioni. Un’inezia, ammette Sedghamiz, rispetto al potenziale di un paese noto da più di un millennio per la qualità delle sue sete e delle sue tessiture. E che forse, in futuro, potrebbe importare più moda prodotta in Europa di quanto abbia fatto finora e che equivale praticamente a zero.
Una cultura aperta alle spalle. Quella del toccarsi fra sessi diversi, atto banalissimo nella moda, è una questione che si rivela dirimente
A quasi quarant’anni dalla rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini e dalla restaurazione dei costumi, le strade delle città iraniane sono piene di contraffazioni occidentali (io stessa comprai i al mercato di Isfahan uno strepitoso beauty case in plastica color oro griffato “Guccy” , tre anni prima che Alessandro Michele lanciasse la “guccification” e l’appropriazione del fenomeno dei falsi come tendenza), ma è principalmente durante i soggiorni europei per studio o per divertimento che i giovani benestanti fanno i propri acquisti. Javad Sedghamiz è vicepresidente del Tgu, Teheran Garment Union, il sindacato dei produttori di abbigliamento, un organismo che accoglie circa ventimila iscritti e che dunque, di primo acchito, appare potentissimo. Però, come sa chiunque, fare vestiti non equivale a fare moda. Persian Idea nasce per questo: dopo aver lavorato a un progetto di campionatura di taglie e tendenze con l’università di Teheran, gli otto designer del primo gruppo, selezionati attraverso un concorso del tutto simile all’italiano “Who’s on next” che è uno dei grandi poli d’attrattiva internazionale di Altaroma, hanno avuto il compito di massimizzare l’effetto delle proprie creazioni, sviluppando uno “stile improntato alla multiculturalità” per colpire l’immaginario occidentale. Il “prodotto moda” sviluppato fino a oggi mescolando almeno nominalmente le varie influenze culturali a partire dal modello dell’abito maschile che, salvo periodici aggiustamenti, è in voga in Europa dagli anni Trenta del Novecento e per quello femminile dai Settanta, è ancora piuttosto rigido e certamente poco accattivante per un pubblico smaliziato come quello occidentale e, con ogni probabilità, anche per i “rich kids of Teheran” che riempiono di foto griffatissime e di sguardi maliziosi i propri account Instagram.
Considerando l’attuale macro-tendenza mondiale, improntata alla massima libertà creativa, cioè la convivenza fra gli off-white, i bianchi gessosi tipici con cui il controverso ex videomaker Virgil Abloh ha spalmato la sua prima collezione per Louis Vuitton Homme e le stratificazioni di storia e di pensiero di Gucci, è impressionante notare fino a che punto questi, come molti altri designer cresciuti in paesi che si sono avvicinati al sistema della moda da pochi anni, ne subiscano il fascino e il potere, al punto di dimenticare che una moda “occidentale” semplicemente non esiste. La moda “europea” è una convenzione e la moda “trasversale” per antonomasia da sempre. Nemmeno i costumi tradizionali sono esenti da influenze esterne: osservi le pettorine del costume tipico Walser e vi trovi ricamati pietruzze ed elementi di metallo arrivati dall’Asia Centrale, dalla Prussia o da qualunque altro paese dove fossero emigrati per lavorare i mariti delle proprietarie del costume. Il completo maschile giacca-cravatta è il frutto di una stratificazione di influenze in cui rientrano le popolazioni nordiche, i mercenari croati e una profonda mutazione delle camicie indossate dai romani. E se si volesse andare alle origini dei bestiari medievali e degli animali fantastici di cui Michele popola le sue collezioni, se ne troverebbero le origini proprio in Persia, e fra le fonti di La Fontaine c’è il Gulistan o “il giardino delle rose” del grande poeta classico Sa’di.
“Se l’Iran vuole fare passi avanti, la moda e la creatività sono una leva importante. Ma dobbiamo stare attenti al linguaggio che usiamo”