Com'è glamour il black
La nuova idea della diversità. Moda, cultura e la nozione stessa di bellezza: l’Africa invade l’Europa
“Non fate della Francia Mundial uno spot per gli sbarchi”. “Le ragazze del 4x400 di atletica: il colore? Solo l’oro”. “Guardateci, vi sembriamo atleti non italiani?”. E altri, e altre, e ancora. Nel dramma epocale degli sbarchi clandestini e dell’orribile rimpallo di accuse fra i paesi della Ue, vorremmo permetterci di dire che la retorica pro immigrazione e/o integrazione basata sulle performance sportive o umanitarie dei cittadini di colore che, per nascita, per volontà o per denaro gareggiano sotto le insegne degli stati europei potrebbe perdere in enfasi e guadagnare in forza se provasse ad esplorare ambiti più evidenti, più interessanti e infinitamente più potenti e influenti al raggiungimento del suo scopo. Se non vi siete accorti che “questo mondo non è più bianco”, titolo della raccolta di saggi autobiografici di James Baldwin ritradotta e mandata alle stampe una settimana fa da Bompiani a ottant’anni dalla sua prima apparizione negli Usa, forse fate bene a rallegrarvi perché gli sbarchi sono diminuiti dell’87 per cento, come dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini, e a continuare a salire sull’autobus 90, circonvallazione esterna di Milano, sperando che prima o poi ai “negher” verranno assegnati solo i posti in fondo e che nessuna Rosa Parks si alzerà per protestare perché “il vento è cambiato”. Poi, però, non veniteci a dire che non trovate più posto sull’autobus e neanche altrove.
In queste settimane, il MaXXi ha dedicato una serie di incontri alla letteratura africana. A Venezia il progetto “Afropean Bridges”
Mentre scrivo questo articolo, ho davanti a me un ritratto giovanile di Baldwin sulla copertina della nuova traduzione (splendida) dei suoi scritti all’alba del movimento per i diritti civili; una copia del numero di agosto di Vogue British con Oprah Winfrey ritratta in copertina da Mert e Marcus in un clamoroso abito da sera in taffettà disegnato per lei da Stella McCartney (“colloquio con una potenza globale” il titolo). Il link al documentario di Raoul Peck “I’m not your negro”, candidato agli Oscar nel 2017, mi aspetta per una seconda visione approfondita acquattato sotto questa pagina di word. Il black glamour guida la nuova cultura della diversità, ragazzi, e in questo processo i barconi dei disperati c’entrano molto relativamente. L’Africa sta invadendo l’Europa lì dove è più facilmente seducibile, la cultura, la moda, la nozione stessa di bellezza. E l’Europa vi partecipa attenta e interessata come non aveva mai fatto prima, quando seguiva ogni forma di espressione come fatto essenzialmente politico. In queste settimane, il MaXXi ha dedicato una serie di incontri alla letteratura africana nell’ambito delle due mostre organizzate per la stagione estiva in collaborazione con il ministero degli Esteri e della Cooperazione: African Metropolis. Una città immaginaria, percorso artistico fra oltre cento lavori di trentaquattro artisti africani che restituiscono la ricchezza dell’identità contemporanea del continente, e “Road to justice”, selezione di opere sulla sua complessità. Lo scorso aprile era stata Ca’ Foscari a riunire, in un’iniziativa destinata a ripetersi, economisti, artisti e politici fra Italia e Africa nel progetto “Progressi Afropean Bridges”, diciamo un’applicazione normalizzata dello sprezzante ”aiutiamoli a casa loro”, che potrebbe tradursi in ”incontriamoci a metà che potrebbe venirne fuori qualcosa di buono”.
Meghan Markle, nuovo simbolo della diversità vincente. Non sottovalutate la preferenza che la regina mostra nei suoi confronti
Vorrei prevenire eventuali obiezioni di matrice populista contro l’apparente radicalizzazione chic di queste prime righe informandovi che qualche giorno fa, nel corso del programma pomeridiano-pop “La vita in diretta”, un pubblico feroce ha scaricato come white trash, spazzatura bianca (non ha usato esattamente queste parole, ma il senso era quello), il cialtronissimo padre di Meghan Markle, nuovo simbolo della diversità vincente che in Gran Bretagna va dominando non solo copertine e appuntamenti mondani, ma direttamente Buckingham Palace. Non sottovalutate la preferenza smaccata che la regina Elisabetta mostra nei confronti della sua novella nuora, tenendosela accanto nel corteo di Ascot come alle parate: è una mossa politica che la sovrana, al potere da sessantacinque anni, non può non aver valutato e che, infatti, di recente ha mostrato di voler fare anche con altre figure di spicco di origine africana. Il direttore di Vogue British Edward Enninful, per esempio. Due anni fa, quando ancora la rivista era diretta da Alexandra Schulman e sulle sue pagine si alternavano Kate Moss e Cara Delevingne, Elisabetta II ha tributato a Enninful, allora direttore creativo del mensile W di nascita ghanese, l’onorificenza dell’OBE (Officer of the Most Excellent Order of the British Empire) per i servizi resi alla corona nell’opera di diversificazione culturale dell’industria della moda. Lo accompagnavano Naomi Campbell in tailleur bianco, la madre in abito nero e un padre dall’aria severissima per il quale, molti anni fa e ancora modello, prese una laurea alla Goldsmith prima di dedicarsi interamente alla moda, “altrimenti”, come ha raccontato scherzando quel tanto che basta, “mi avrebbe ucciso”.
Vi racconto queste cose di Enninful perché in Italia ha lavorato a lungo e sicuramente sarete entrati in contatto con lui pur non avendolo mai incontrato: nel 2008, per Franca Sozzani, realizzò la prima “black issue” di Vogue Italia, la prima nel mondo per essere precisi. Presentava solo modelle nere come Chanel Iman, Alek Wek, Jourdan Dunn e Naomi e diventò il numero più venduto della storia del giornale. Solo in Italia ne vennero ristampate diecimila copie. Qualcuno le avrà pur comprate, immagino. Nominato direttore di Vogue Britain nell’aprile del 2017 (“sono nero, sono gay, non sono ricco e non sono magro”, dichiarò un secondo dopo la sua nomina), lo scorso novembre mise in chiaro quale fosse la sua linea editoriale assegnando la sua prima copertina alla modella femminista Adwoa Aboah e dirigendo sostanzialmente il calendario Pirelli 2018, in cui ha restituito la storia di Alice alla sua essenza originaria, quella di viaggio identitario distopico, facendone interpretare i ruoli a un cast all star e all black, di cui parecchi inaspettati come Whoopi Goldberg, certamente un mito della cultura afro-americana, ma non proprio, diciamo, una che ci si aspetterebbe di vedere fotografata su uno strumento di comunicazione destinato, fino a pochi anni fa, a rallegrare i gommisti.
Nel 2008 la prima “black issue” di Vogue Italia. Presentava solo modelle nere, diventò il numero più venduto nella storia del giornale
Alla conferenza stampa, al Pierre di New York, qualche attivista per i diritti degli afro-americani come il produttore musicale Sean Combs (ex Puff Diddy) ne fece occasione di una propaganda politica dai toni insolitamente accesi per l’occasione e i contenuti straordinariamente banali, ma non ci sono dubbi che nessuno meglio della drag queen Ru Paul avrebbe potuto interpretare la regina di cuori e che il premio Oscar Lupita Nyong’o, bella com’è, sia stata estremamente spiritosa ad accettare il ruolo del Ghiro. Come ha avuto modo di osservare qualcuno, vi era stato un calendario Pirelli interamente interpretato da modelle di colore nel 1987: la differenza è che quello attualmente in uso, per i fortunati che lo ricevono, non ha un solo centimetro di pelle scoperta e, come da qualche anno a questa parte, sfrutta tutto il suo immenso potenziale di comunicazione per scopi diversi da quello di mettere in mostra femmine. Resta da vedere quanto durerà questa tendenza puritana e attivista nel calendario della bellezza muliebre scoperta (l’edizione 2019 sarà scattata da Albert Watson, comunque un autore di impronta forte, e una delle protagoniste sarà Misty Copeland, étoile di colore e simbolo della lotta contro l’emarginazione). Quel che è certo è che una compagine trasversale di attori, autori, fotografi e giornalisti sta cambiando in via definitiva i canoni della bellezza e dello stile nel mondo occidentale tuttora bianco, più o meno wasp, ricco, colto attraverso una serie di piccole, decise mosse nei media che creano o che influenzano.
Enninful ha circa 785 mila follower, circa cinque volte più della Schulman, e tutti i profili più o meno ufficiali di Meghan Markle sommati superano il milione, abbastanza per introdurre i canoni della diversità e del mix culturale anche presso il pubblico che non legge Angie Thomas (“The hate U give”, è stato comunque pubblicato in Italia e presto diventerà film) o il premio Pulitzer 2018 Rachel Kaadzi Ghansah, autrice di saggi sul suprematismo bianco. Comunque la vediate, dovete ammettere che il sermone del predicatore episcopale Michael Curry “feel the power of love” trasmesso in mondovisione al matrimonio di Meghan con Harry Windsor sia stato un bello scossone. Le lingue si evolvono a dispetto degli accademici della Crusca che, anzi, dovrebbero tutelarne quella che è la prima norma di sopravvivenza, l’evoluzione anche forte, brutale e a strappi come quella operata da Dante ottocento anni fa con il suo volgare, e lo stesso sta accadendo nel mondo dell’immagine con la diversità multietnica ed estetica: la moda e il glamour, grazie al potere economico che la sostiene e la protegge, sta proponendo nuovi modelli, nuove ispirazioni e nuovi modelli.
Ma perfino la pubblicità mass market, che dell’evoluzione sociale è l’espressione più carica di significati, più simbolica e quindi più determinante, inizia a prendere in considerazione non solo nuovi standard espressivi, ma nuovi modi di pensiero. In Italia ce ne accorgiamo ancora poco, ma negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra, nel corso degli ultimi quindici anni, sono quasi del tutto scomparsi da spot e annunci gli automatismi e gli stereotipi di carriera e di ruolo (per dirla in sintesi, i camerieri sempre di colore e le seduttrici senza freni inevitabilmente “latinas”). Come osservava il sociologo americano Anthony Cortese in un saggio di qualche anno fa, se un tempo “le pubblicità partivano dall’assunto che le minoranze etniche fossero dei bianchi con un diverso colore di pelle, cioè privi di una storia e di una cultura proprie, pur nell’assimilazione a una cultura che è ancora quella dominante, non ci sono dubbi che le cose vadano cambiando e le differenze inizino a stemperarsi e a sfumare, anche per un mero dato socio-anagrafico.
Anche se osteggiati (e da entrambe le parti) aumentano quasi ovunque i matrimoni misti, e anche le relazioni
Anche se osteggiati (e da entrambe le parti, i pregiudizi sono sempre a doppio binario, “Indovina chi viene a cena”) aumentano quasi ovunque i matrimoni misti, e anche le relazioni. Uno degli aspetti meno discussi dei siti di incontri sono infatti i rapporti interetnici che favoriscono. Lo sottolineava il sito “Integrazione West” qualche mese fa, citando una ricerca della Columbia University sui risvolti sociali della tecnologia: indagando il boom dei matrimoni via dating site tipo match.com, OKCupid o Tinder, che negli Usa rappresentano un terzo di quelli celebrati ogni anno, i ricercatori dell’ateneo hanno infatti scoperto anche la loro funzione di rompighiaccio delle tradizionali segregazioni etniche, di cui facilitano l’intesa, e spesso l’unione. In Italia, i matrimoni misti sono aumentati del 180 per cento fra il 1995 e il 2015, ultimi dati certi disponibili, pari al 9 per cento del totale. Se questo non significa che abbiano favorito l’assimilazione o l’integrazione (molte di queste intese matrimoniali, in Italia strette in prevalenza fra italiani e donne dell’est europeo, perseguono dichiaratamente fini di reciproco sostegno), nondimeno sono sempre meno spesso argomento di curiosità o tanto meno di scandalo. In questo, come sempre, aiuta la consuetudine, la prassi, l’interesse reciproco.
Nel consueto gruppo universitario misto che è ormai il mio laboratorio di integrazione e osservazione, una studentessa del Ghana, arrivata a Roma da un paio d’anni e coinvolta in un gruppo di studio di costume e religione, osservava quanto si trovasse poco a proprio agio con la classica divisa delle ragazze italiane, jeans, maglione e giubbotto col colletto di pelo ecologico (si era d’inverno). Le altre le hanno chiesto come mai si sforzasse tanto quando i bibi della sua terra sono tanto più eleganti, al punto che i nostri stilisti li scopiazzano regolarmente, senza contare che i tessuti, i famosi wax, sono frutto di un vero e proprio mix tecnico culturale (tecnica olandese, colori africani). Voleva sembrare uguale alle altre. Era la scelta sbagliata.
generazione ansiosa