I populisti e il fascino della divisa
Da Tofalo a Salvini. Perché ai nostri leader politici piace indossare le insegne delle nostre forze armate, con tanti saluti al loro prestigio
Chiacchierando con uno dei vertici dell’aeronautica militare all’ultima edizione di Pitti Uomo, dove il brand affitta uno degli spazi più importanti con gran sfoggio di belle ragazze e modelloni dall’occhio umido, non ho potuto trattenermi dal chiedergli se non gli desse fastidio che un sacco di gente lontanissima dal mondo militare sfoggiasse felpe, pantaloni, t shirt e – stellette e mostrine a parte – persino gli stessi giubbotti in cuoio che lui, entrato ragazzino in accademia, si era conquistato con migliaia di ore di volo e di comando in teatri di guerra. Si è messo a ridere: la partnership con l’azienda che produce la linea in licenza, la Cristiano di Thiene, gira ai nostri aviatori royalties a sufficienza da compensarli per la perdita di prestigio di vedersi servire dal fruttivendolo o dal gommista che inalbera il simbolo degli stormi a cui mai avrebbe potuto accedere se non dopo aver completato l’accademia, l’addestramento e, naturalmente, essersi presi una laurea che, come avrete capito, in questo paese inizia ad assumere i tratti di una colossale perdita di tempo.
Nell’annullamento progressivo delle competenze e della fatica che il lavoro e una carriera meritevole di soddisfazione e di orgoglio comportano, ci sta anche l’acquisto di una polo , come peraltro si può fare – se l’aeronautica non aggrada - con l’esercito italiano e con la marina militare. Quest’ultima, mi informa una newsletter, attraverso il suo licenziatario toscano Iccab ha persino riportato la manifattura delle sue t shirt in Italia, dopo aver delocalizzato per anni in Cina, iniziativa forse un po’ dovuta, dato l’oggetto della produzione. Qualche tempo fa un’amica mi chiedeva se per caso, da fortunata giornalista di moda, non avessi uno sconto per un paio di magliette della Polizia simili a quelle che il vicepremier Matteo Salvini, abile giocoliere di simboli vestimentari, sfoggia a seconda dell’occasione da un paio d’anni. Nel 2016, in occasione di un memorabile comizio a Ponte di Legno, si mise addosso per l’appunto una di queste polo, annunciando che, una volta al governo, avrebbe “ripulito” le città. Insorsero quasi tutti i sindacati di categoria, dichiarando “inaccettabile” l’atto “di indossare spocchiosamente una divisa”, cioè di arrogarsene i simboli e, per traslato, le funzioni.
Adesso che Salvini è ministro dell’Interno, di spocchia non parla più nessuno e l’utilizzo delle insegne di un’arma rispetto a un’altra è diventata questione di opportunità e di occasioni, forse meritevole di uno studio ad hoc o di una derivazione politico-comunicazionale della App Lookhave, in uso fra le influencer per scegliere a colpo sicuro fra le infinite opportunità del proprio guardaroba. Un po’ come Chiara Ferragni quando valuta a quale cliente dare visibilità quando si reca a un cocktail, anche l’esecutivo mostra infatti di saper declinare le proprie scelte vestimentarie a seconda dell’occasione, senza alcun dubbio con l’aiuto di un professionista: derby Roma-Lazio? Ecco il cappellino con i segni della sicurezza (messaggio subliminale: tranquilli, ci sono io a garantire l’ordine). C’è da promettere un repulisti? Voilà la polo adatta, riconoscibile prima e molto di più delle parole.
Se ogni tanto pecca della stessa infantile superbia del corvo di Esopo (come definire altrimenti l’idea del sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo di indossare mimetica e stivaloni e di imbracciare un mitra per vedere “che cosa si prova”, come un bambino alla festa di carnevale?), sa che lo sfoggio visibile, iconico, delle insegne del potere è già un piccolo passo sulla strada della conquista dello stesso. Per questo, per secoli, i re hanno limitato l’uso di certi colori; un particolare punto di blu in Francia, per esempio, altrove di rosso: per evitare che arrampicatori sociali e mistificatori dessero l’assalto al potere nella forma più sottile e al tempo stesso più comprensibile: il vestire. Lo sapeva, e lo sfruttò abilmente, anche Napoleone Bonaparte quando, primo generale della storia, decise di disegnare di persona le divise della sua armée: sapendo di poter pagare poco, e sapendo pure che tutta “quella brava gente sarebbe andata a morire”, in cambio offriva loro giacche ornate di alamari che mai avrebbero potuto permettersi e grazie alle quali potevano abbagliare le ragazze, cioè portarsele a letto, risvolti delle maniche alti un palmo e ornati di una fila di bottoni lucidati (oddìo, quelli servivano perché i famosi bravi contadini arruolati a due soldi evitassero di soffiarci dentro il naso, ma non stiamo a sottilizzare). Nella panoplia napoleonica rientrava anche la bella leggenda del bastone da maresciallo. Ad ascoltarla, sembra che ciascuna delle tante gerle rispuntate ancora di recente, nelle piane attorno a San Pietroburgo, ne contenesse una.
Divisa significa ordine, disciplina, e al tempo stesso appartenenza: “Vestiti per il lavoro che vuoi ottenere”, consigliano i manuali di self help, certamente senza pensare ai Fulgencio Batista, a Fidel Castro, a Duterte, che scelsero non solo quali divise, ma anche quali medaglie appuntarsi. Racconta il biografo di Charlie Chaplin, David Robinson, che quando indossava la divisa di Adolf Hitler sul set de “Il dittatore”, il regista diventava automaticamente più esigente e dispotico, rendendosene amaramente conto. Potete provare anche voi: su Amazon si trova ancora un facsimile della divisa di Gheddafi. Costa 62 euro.
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