Memorie capresi
La passeggiata notturna di Jackie Kennedy. Le impronte di uno stile unico e l’eleganza maschile in un foulard al collo: tutto in una mostra
Della visita dell’estate 1962 di Jacqueline Kennedy a Capri e della sua passeggiata notturna per via Camerelle, con le botteghe aperte in fretta e furia per lei tra feste e battimani, esistono molte foto e anche un filmato. Nulla o pochissimo si sa invece della lettera che un paio di giorni dopo quella serata, limite temporale ultimo secondo le leggi universali della cortesia, la first lady inviò alla sua ospite, la “principessa stilista” Irene Galitzine, che l’aveva accolta a Villa Vivara in una delle serate in apparenza semplicissime per le quali andava famosa. Il Foglio ha avuto modo di leggerla grazie alla cortesia di Alessandra Spalletti che ne conserva l’archivio, la memoria e un difficile futuro, e vi ha trovato il senso ultimo dell’ immutabile successo dell’isola nonostante l’affollamento, la massificazione della domanda e dell’offerta e l’infinita scomodità di arrivarci correndo il rischio di non poterne ripartire per giorni a causa del mare cattivo, a dispetto del Golfo di Napoli che scorge così vicino. “Cara Irene, continuo a sperare che riusciremo a vederci ancora una volta (…) prima del mio ritorno a casa. (…) La serata che ho trascorso è stata indimenticabile per così tanti motivi: (…) vedere Capri immersa nella bellezza come mai l’avevo vista prima, arrivarci e lasciarla in barca, salire i tuoi gradini segreti e godersi una serata di musica e di stelle con tutti quei ricci (scritto in francese, oursins, nda) che sanno di mare. (…) Ricordo di essermi seduta sulla tua terrazza, così dispiaciuta per chiunque nel mondo non fosse lì, e invidiosissima degli italiani che invece sanno di vivere nel posto più bello del mondo. La maggior parte della gente pensa di trovare il paradiso in qualche posto scoperto in viaggio. Io invece trovo così affascinante che si possa pensarlo del posto dove si vive. Alla fine, il più grande regalo che si possa fare a qualcuno non è un oggetto, ma un ricordo che cresce e trova radici più forti ogni giorno che passa. Di questo ti ringrazio. Con affetto, Jacqueline Kennedy”.
“Ricordo di essermi seduta sulla tua terrazza… nel posto più bello del mondo” (Jackie a Irene Galitzine, che l’aveva ospitata)
Questo punto, la tenacia del ricordo, la volontà di preservare la memoria e di rinnovarla con un nuovo futuro, ha riportato qualche giorno fa la Rai a Capri per la settantesima edizione del Prix Italia, il più antico premio radio-televisivo del mondo che qui era nato per l’appunto nel 1948, riunendo quattordici delegati europei in una speranza di pace e di serenità. E sulla stessa falsariga, raccontare l’evoluzione dello stile unico dell’isola attraverso le molte riprese della Rai dagli anni Cinquanta a oggi, si è sviluppata la mostra “Da Capri a Capri: settant’anni di storytelling internazionale” alla Certosa di san Giacomo, complesso medievale costruito con il consueto occhio certosino per il genius loci di fronte ai Faraglioni, quei massi discosti come osservatori immoti di questa “isola colta e tollerante anche durante la guerra”, come ne scrive il segretario generale Karina Laterza nell’introduzione del catalogo.
I fascisti avevano fatto molto per emendare l’isola da certe commistioni politiche e sessuali, e moltissimo per irreggimentarne la tolleranza nei canali loro più consueti della xenofobia. Non riuscendovi, anche per via della ricchissima e molto libera presenza tedesca sull’isola, lasciarono perdere. L’isola è isolata, come si dice, l’infezione libertina e libertaria già allora leggendaria non si sarebbe propagata facilmente sulla terraferma e dunque proprio da Capri, nello stesso dopoguerra da cui la Rai partiva con l’avventura del primo premio mediatico mondiale, presero piede anche certe nuove mode che, grazie alla televisione, avrebbero fatto il giro del mondo. Per primi, i Capri pants, geniale intuizione di una tedesca, Sonja De Lennart, che ne registrò il brevetto attorno al 1950 vestendone quindi Audrey Hepburn, e le cui eredi vegliano tuttora con attenzione sull’uso proprio della definizione, impedendolo di fatto ai capresi; quindi, la “moda boutique”, geniale commistione di moda pronta e stile fresco e originale che prese le mosse dalla lezione di Emilio Pucci e della baronessa Clarette Gallotti, la “Tessitrice dell’Isola” che compare con le sue gonne e i suoi caftani pre-radical chic nelle prime edizioni di Pitti, a Firenze, e quindi gli infiniti pappagalli, playboy, sciupatori di femmine o di maschi o di entrambi che, ostentando uno stile eccentrico, credevano (certuni tuttora credono) di emulare l’imperatore Tiberio o, più modestamente, il mediocre poeta simbolista francese Jacques de Fersen avvolto nel sarong in cui aveva posto fine ai suoi giorni a Villa Lysis, il sogno estetizzante che aveva fatto costruire sotto le rovine di villa Jovis, dove si aggiravano tutte le ninfe egerie dell’isola vestite di tulle e chiffon a imitazione di Artemide ma soprattutto Ninetto Cesarini, il giovane e verace napoletano per il quale il barone aveva commissionato allo scultore Jerace una statua che lo ritraeva nudo a cavallo. Per rappresentare tutto questo lungo il percorso in un solo oggetto, un unico accessorio, la canna da passeggio di malacca del barone non sarebbe stata compresa. Alla fine, trovando davvero ridicola l’idea, che pure gli organizzatori del Prix Italia e della mostra (fra cui figura anche l’autrice di questo articolo) avevano accarezzato, di piazzare lungo il percorso espositivo il disegno di un corvo come simbolo dell’eccentricità maschile in terra caprese, si è optato per una serie di foulard. Li ha offerti in prestito Isaia, scegliendo fra le infinite stampe che la seteria più importante d’Italia, la Mantero di Como, aveva realizzato per i suoi clienti fra gli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso. Sei carré sessanta per sessanta, a grossi fiori, stampe equestri o motivi chevron, coloratissimi ma inequivocabilmente maschili. Per evitare di metterli sotto vetro o plexiglas, dove avrebbero fatto magra figura, sono stati annodati come tanti cache col a fili da pesca tirati in una piccola teca di legno decapato, aperta. Sembravano uccellini con le ali ripiegate, di certo più somiglianti alla leggenda che da un giorno all’altro aveva avvolto la comparsa dell’ultimo dandy dell’isola, Dado Ruspoli, con un corvo sulla spalla, che alla realtà di quello che era stato solo un gentile intervento per curare l’animale ferito, raccolto lungo un sentiero. Grazie a una ricerca iconografica, si era infatti verificato che se la foto del principe con il corvo sulla spalla era tanto celebre quanto introvabile, quelle con un foulard annodato attorno al collo erano invece molto numerose e scattate in anni diversi: non rappresentavano l’adesione a una moda passeggera, ma uno stile personale.
Alle nozze molto coreografate i cafoni sbarcarono in piazzetta in giacca e cravatta scura e scarpe allacciate. Altri si misero a piedi nudi
Dunque, volendo raccontare il secondo dopoguerra e non le comunità dei primi del Novecento a cui si è ispirato Mario Martone per il film appena presentato alla Mostra del cinema di Venezia, “Capri revolution”, foulard dovevano essere. Le stampe vivaci nei colori dell’isola, il turchese, il blu, il rosso corallo, evocavano quel mondo di stranezze vere o presunte a cui si era ispirato anche Totò per il suo celeberrimo “Imperatore di Capri” diretto da Luigi Comencini nel 1949. Quei foulard erano una strizzatina d’occhio alla battuta sui “vestiti alla Lollo e alla Foffo” che, perfida, sottendeva a tutto il film, caricaturizzando i capresi acquisiti a uso della gente comune che la sera andava a vedere Totò al cinema e la mattina dopo si imbarcava per l’isola, cercando di rintracciarvi un brivido di sensualità e un souvenir da poche lire da portare a casa. Il turista di massa che ridicolizzava il villeggiante alto borghese prima di travolgerlo fra le sue fila compatte e infinite, intruppate lungo via Camerelle sotto il sole d’agosto. Il foulard mollemente annodato al collo, evoluzione diretta dei cravattoni candidi di George Brummel, come sostituto delle cravatte strette dei camerieri o delle canottiere sudate dei “lavoratoriiii” del “Sorpasso”: un segno talmente riconoscibile che la costumista del film di Totò, Anna Maria Fea, l’aveva scelto per indicare l’evoluzione morale di Mario Castellani, spalla del protagonista, da anonimo travet a raffinato esteta, avido di esperienze nuove e originali. In epoca di evidenze chiassose, i simboli del vestire maschile caprese non avrebbero dunque potuto essere i pantaloni, corti alla caviglia ma comunque troppo discreti, di Emilio Pucci fotografato sulla terrazza della Canzone del Mare dove aveva aperto la sua prima boutique, nel 1950, un fatto talmente innovativo e clamoroso che ancora trent’anni dopo Jacqueline de Ribes raccontava quanto fosse chic, in quel primo dopoguerra, fare attraccare la propria barca a Capri solo per scendere in quel negozio sulla spiaggia a fare incetta di capi di cotone dipinti a mano. Sarebbero stati fuori luogo anche i camicioni da profeta del modello indossato da Diefenbach, che pure Totò metteva alla berlina ma che lo spettatore medio, cioè ignorante, stentava ad attribuire a un personaggio reale e preciso, non avendo sostanzialmente mai sentito parlare di quel pittore utopista vegetariano e ostile alla monogamia (forse vi provvederà il film di Martone, ma non ne siamo sicuri). Insomma, ancora e sempre foulard, avvolto nel cosiddetto nodo Ascot, insomma in funzione cache col.
L’infezione libertina e libertaria leggendaria già negli anni del fascismo. Le nuove mode che grazie alla tv fecero il giro del mondo
Fateci caso, quando al cinema o in televisione bisogna indicare che il tipo appena apparso sullo schermo è un seduttore, ricco o presunto, nullafacente o aspirante tale, gli si mette addosso un foularino. Blazer, camicia aperta, sciarpina di seta. Vittorio De Sica ne “Il conte Max”; Guido Nicheli, il “Dogui” di tanti personaggi cinematografici ispirati al modello eterno del “cumenda” milanese che, dopo aver fatto “i danée”, ne investe un po’ nelle femmine, senza spenderne in realtà mai davvero troppi. Quel triangolino di seta è un un segnale chiaro come un cartello segnaletico: occhio, qui c’è un nobile sfaccendato o una sua imitazione, un nuovo ricco in cerca di piaceri che finora gli sono stati negati oppure un playboy instradato lungo il viale del tramonto, insomma tutta gente perfetta da ridicolizzare. L’effetto non secondario del cache col è infatti postulato nella sua stessa definizione: nascondere il collo, occultarne le eventuali rilassatezze cutanee, che è una problematica molto maschile, un po’ come la pancetta contro la quale interviene, come si sa, il blazer doppiopetto con i bottoni dorati che del cache col è un naturale complemento, insieme con i pantaloni bianchi e i capelli, non di rado tinti in nero fumo e pettinati all’indietro. Benché Nora Ephron ci abbia lasciato in eredità il pensiero che le pieghe sul collo facciano impazzire di rabbia le donne, in realtà sono gli uomini ad avvolgervi attorno una fascia, una stringa, uno sciarpone a cappio, come Diego Della Valle. Quando possono, le donne intervengono chirurgicamente sul collo, constatandone poi con disperazione l’effetto rimborsato, mai ben riuscito. Gli uomini si tengono in genere tutta l’odiosa abbondanza cutanea dell’età, rimediandovi come farebbe un cattivo scenografo con una quinta in cartonato bianco, cioè occultandola il più possibile e contando sull’effetto omogeneizzante delle luci accese sopra, cioè nel suo caso dei colori. Un cache col colorato annodato serve a nascondere tutto quel che non si vuole mostrare, non subito almeno. Aperto, è invece utile a sottolineare le belle compattezze dei vent’anni, e non è un caso che Giorgio Armani annodi sempre, in versione marinara, un foularino al collo dei modelli più interessanti della sua già selezionatissima passerella.
L’eccentricità alla mostra “Da Capri a Capri: settant’anni di storytelling internazionale”, organizzata dalla Rai
Nelle riprese della manifestazione che portò a Capri la grande moda fra gli anni Sessanta e Settanta, “Mare Moda”, e che proprio nel grande chiostro della Certosa venivano organizzate, a un certo punto compare una sfilata di Walter Albini, lo stilista scomparso troppo presto a cui tutti devono qualcosa: i suoi maschi hanno tutti un foularino al collo. Un paio di stagioni fa, questo accessorio dal costo abbordabile anche dai giovanissimi fece capolino da tutte le collezioni, a Milano e a Parigi: è la ragione per la quale ne avete visti molti indossati ancora durante l’estate appena trascorsa, portati a cappio e lasciati penzolare fuori dalla camicia. Comunque la si voglia mettere, Capri infatti resta un’isola maschile e il cache col il più efficace sostituto della cravatta, soprattutto in luoghi dove indossarla equivarrebbe a classificarsi come un cafone rifatto. Lo si vide qualche anno fa in occasione del matrimonio molto coreografato di Giovanna Battaglia, fashion editor di calibro internazionale e influencer molto attiva in circoli diversi da quelli di Chiara Ferragni e del povero Fedez rivestito e calzato ogni giorno con la giacca e la camicia di una griffe diversa e continuando a portarle tutte malissimo, con il milionario svedese Oscar Engelbert. I cafoni, che esistono anche nella moda essendo questa un settore parecchio aspirazionale, sbarcarono in piazzetta in giacca e cravatta scura e scarpe allacciate, ignari dell’esistenza e soprattutto dell’adeguatezza di un lino estivo chiaro per un matrimonio al mare. Qualcuno di chi, invece, sapeva, si tolse le scarpe e girò a piedi nudi. Un paio degli ultimi dandy di calibro internazionale, tutti giovani, sfoggiarono foulard e sciarpine per sottolineare lo scollo della camicia, lasciata molto aperta. Apparivano adeguati al luogo; cioè, naturalmente eleganti.
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