La pessima idea di (non) fare le scarpe ai francesi. Di Maio al Micam
Gli imprenditori del settore delle calzature sono preoccupati della piega che vanno prendendo i rapporti con Parigi e della ricaduta sui loro affari
Concluso il pistolotto post luddista e parecchio incongruo sulle macchine e l’intelligenza artificiale che “nelle calzature non potrà mai sostituire l’uomo” (please, qualcuno gli spieghi che aziende e stilisti di grido realizzano i prototipi in 3D ormai da anni e che L’amica geniale con Lila ciabattina ’e Napule è un romanzo di fantasia ambientato negli anni Sessanta), il vicepremier Luigi Di Maio è rimasto al salone della calzature, il Micam appena chiuso alla Fiera di Rho Pero, il poco bastante a evitare i troppi mugugni dei calzaturieri maximi d’Italia, preoccupati della piega che vanno prendendo i rapporti con la Francia e della ricaduta degli stessi sui loro affari.
Le calzature italiane valgono 14 miliardi di euro, occupano 76.600 addetti ed esportano l’85 per cento della produzione. “Il nostro primo paese di destinazione è la Francia”, sospira l’amministratore delegato dell’associazione di categoria Tommaso Cancellara che, oltre al rapporto di stima con Carlo Calenda, ha lavorato a lungo in Ferrari e Tecnogym. Se per il governo gialloverde, e al netto delle expertise sulla Tav, trovarsi un nemico vicino e notoriamente spocchiosetto è mossa distorsiva di facile presa, per gli industriali che agli spocchiosetti non solo vendono, ma soprattutto fabbricano le scarpe a cui verranno infilate sulle solette le etichette in seta di Christian Dior, Balenciaga, Louis Vuitton, Givenchy, una rottura diplomatica definitiva con Parigi uno scenario apocalittico. Nessuno vuole prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi. Al di là del solito e ormai stucchevole ritornello sulle “aziende della moda italiana che vanno ai francesi” e che, a conti fatti, non sono poi così più numerose di quelle che invece sono “rimaste”, dividere i destini commerciali di Italia e Francia è quasi più difficile che separarne l’evoluzione lessicale dai tempi della scuola di Lione (a proposito), cioè del tutto impossibile.
Lungo la stessa rotta di un’alta velocità che non riesce a partire, ma a dorso di mulo, a piedi o in carrozza sfidando la neve e le gelate, per decine di secoli ci siamo scambiati merci, cultura, eleganza, le acconciature di Isabella d’Este, le posate di Caterina de’ Medici e purtroppo anche gli eserciti (quelli sono arrivati quasi esclusivamente in un senso solo). Le nostre storie sono più solide del matrimonio di Macron, ed è per questo che, leggendo martedì mattina i risultati 2018 del colosso francese Kering (profitti netti in crescita a 3,71 miliardi di euro contro gli 1,79 del 2017, un dato che ha battuto perfino le attese del mercato, fermo a 2,79 miliardi, con il fatturato Gucci in crescita del 36,9 per cento), hanno praticamente applaudito lì, nella “fashion square” allestita in mezzo ai padiglioni. Il gruppo Kering, come i Dolce & Gabbana prima di loro, sono nel mirino del fisco italiano anche per questo. Per questa storia intrecciata che, accidenti, è difficile perfino dipanare per capirci qualcosa.
I guardiani del bene presunto