Oh capperone! Quando l'Italia fascista litigava con gli “orridi francesismi”
Il dizionario di Meano e le risate da sovranismo della moda
Milano. Siamo moderatamente sicuri che, essendo cadute in disgrazia le pellicce, anche in questi giorni di guerra diplomatica fra Italia e Francia non sentiremo parlare di nuovo di topi muschiati, cioè di pantegane, al posto del francese rat musqué. Una nuova autarchia lessicale ci sembra un rischio remoto, e poi il francese non si studia quasi più. Però, in caso voleste procurarvi una copia del “Commentario Dizionario Italiano della Moda di Cesare Meano”, pubblicato nel 1936, premiato dal Minculpop nel 1938, in cui si suggerivano le traduzioni alle parole entrate nell’uso comune come chaperon, dormeuse o renard, vi basterà cercare con un po’ di attenzione fra le bancarelle di Porta Portese o da un certo rigattiere antiquario di libri che gravita fra Chiavari e La Spezia, specialista di militaria e pubblicazioni fasciste.
Il Dizionario costa relativamente poco, circa 30-35 euro, perché venne stampato in decine di migliaia di copie, per favorirne la massima diffusione. Meano aveva un compito preciso: far sparire gli “orridi francesismi”, insieme con una cultura democratica che, sebbene non fosse proprio millenaria come oggi dice Di Maio, era comunque abbastanza potente da instillare il germe della ribellione all’assolutismo in tutta Europa. Compresa la Napoli del nostro Di Maio dove, come tanti radical chic sanno, la rivoluzione del 1799 finì in episodi di cannibalismo e con la povera Eleonora de Fonseca Pimentel impiccata senza mutande e con la camiciona larga, per gaudio del popolo e della sua ferocia.
Il Commentario Dizionario pubblicato nel 1936 aveva scopi in apparenza miti, ma in realtà puntava in alto, cioè a scalzare una volta per tutte dalle zuccone disfattiste e dalle riviste di moda “inchinate a Parigi” l’idea che gli usi e i costumi francesi fossero preferibili ai nostri, e le sartorie di rue Boissy d’Anglas o di rue Cambon di livello infinitamente superiore a quelle di via Durini a Milano o di via Po a Torino. Dunque, se alle sartorie veniva imposto l’uso di “bellezze nazionali” alte al massimo un metro e sessantacinque per 65 chilogrammi, alle riviste e alle famiglie veniva suggerita una neolingua, spesso malamente o ridicolmente tradotta dall’idioma d’Oltralpe.
Ma se si poteva ridere dello chaperon tradotto in “capperone”, su certe definizioni di origine mista e dalle quali gli infiniti legami fra la cultura italiana e francese balzavano all’occhio, la faccenda si faceva spinosa. Prendete per esempio il sostantivo maschile “pantalone”. Meano suggeriva di usare al suo posto “l’italianissima definizione di calzone”. Ma il pantalone indicativo francese di indumento maschile in realtà si riferiva, in sineddoche, alla maschera veneziana di Pantalone, personaggio principe della Commedia dell’Arte che, dal Rinascimento in poi, aveva allietato le corti di Francia, e che a sua volta era un alterato di “Pantalemene”, dal genitivo greco “pantos”, tutto, ed “elemon”, misericordioso: insomma indicava un brav’uomo dalle tasche ampie, secondo i termini che anche adesso Matteo Salvini evoca (“paga Pantalone”).
Districarsi fra millenni non di democrazia, ma di storia congiunta e di acconciature scambiate per lettera e a mezzo di bambole di legno, le Pandore, era insomma difficilissimo. I francesismi più o meno orrendi ammantavano però di grazia certe vomitevoli realtà che l’autarchia rese evidenti. Blindate oltre confine le pellicce di lusso, di origine russa, canadese, americana, i sarti fascisti, con i loro estensori lessicali, dovettero infatti rendere attraenti quel che si trovava in Italia e nel suo povero impero. Spariti i renard, i chinchilla, i visoni, rimanevano il lapin, che ancora ancora si poteva tradurre in coniglio senza sentirsi torcere le budella, e poi tutta l’infinita schiera di topi, ratti, gatti, cani eritrei che, all’improvviso, diventarono desiderabilissimi, elegantissimi, profumatissimi. “Donne, fate contenti i mariti”, e vestitevi di lanital e scarpe di cartone pressato. Il filato di caseina, in effetti, è tornato da poco di moda. Si spera però che fra i cascami della Brexit non si finisca per litigare anche con Theresa May. Per l’esecutivo gialloverde, dover rinunciare allo “speech che ho parlato ad Harvard” potrebbe essere un brutto colpo.