Le sfilate di un paese che si sente sotto attacco. Ma che (per fortuna) resiste
Il racconto della nuova moda vista a Milano che disegna un’idea di donna, e talvolta anche di uomo, armati per difendersi
La sfilata di Giorgio Armani
La sfilata di Giorgio Armani
La sfilata di Giorgio Armani
La sfilata di Giorgio Armani
La sfilata di Tod's
La sfilata di Tod's
La sfilata di Etro
La sfilata di Etro
La sfilata di Etro
La sfilata di Etro
La sfilata di Dolce&Gabbana
La sfilata di Dolce&Gabbana
La sfilata di Dolce&Gabbana
La sfilata di Dolce&Gabbana
La sfilata di Versace
La sfilata di Versace
La sfilata di Versace
La sfilata di Arthur Arbesser
La sfilata di Arthur Arbesser
La sfilata di Arthur Arbesser
La sfilata di Arthur Arbesser
La sfilata di Fendi
La sfilata di Fendi
La sfilata di Fendi
La sfilata di Fendi
La sfilata di Gucci
La sfilata di Gucci
La sfilata di Gucci
What are we going to do with all this future? Due anni dopo, allo slogan di Coco Capitan per Gucci si potrebbe sostituire la parola “Fashion” e domandarsi davvero che cosa ce ne faremo di tutta questa nuova moda. Le sfilate di Milano, collezioni autunno-inverno 2019-2020, sono finite: sono state tutte generalmente interessanti, qualitativamente perfette, mediamente o anche molto intelligenti, vedi Prada, ma sia sopra sia sotto le passerelle il senso di inquietudine è palpabile. Ci sono state feste e cene ogni sera, come sempre, e per Prada e per Giorgio Armani la fila di star sedute in prima fila era infinita, ma la moda che hanno applaudito disegnava un’idea di donna, e talvolta anche di uomo, armata per difendersi.
Cuissardes da schermitrice o da valkiria del quotidiano (Max Mara e un po’ ovunque), latex, ciré (Tod's e Alessandro Dell’Acqua in versione Brian de Palma Dressed to kill), collari da mastino con spunzoni da vergini di Norimberga, bustini e bustier sexy-protettivi (Versace) e maschere. Di ogni forma, materiale, scopi. Spalle ampie e rigide per parare i colpi (Gucci, Arthur Arbesser), zaini sulle spalle per scappare veloci. Perfino Etro, solita a divagazioni sul tema del viaggio e del nomadismo boho-chic, ha presentato evoluzioni contemporanee di Claretta Maffei sulle note dell’ouverture del Nabucco. Maniche a sbuffo e stivaletti: la speranza di un nuovo Risorgimento che parta ancora una volta da Milano?
Si presenta la moda del prossimo inverno e, tolta la saggezza dei guru di grande esperienza come Armani, che è andato controcorrente con un messaggio di pace e di leggerezza, o di Fendi, per l'ultima collezione disegnata da Karl Lagerfeld, aerea e raffinatissima, grandi colli e adorabili minuscole borsine, sulle passerelle tira l’aria gelida dell’inquietudine mista a una pervicacia che sembra sconfinare nella tigna. Ovunque, si sfoggiano loghi e insegne, a voler dire che il paese vive uno dei momenti più difficili dell’ultimo secolo, ma gli industriali della moda italiana sembrano voler dimostrare che una qualità come la nostra possiamo farla solo noi, a prescindere dal fatto che non si trovi più la gente per farla perché alla spinta a una formazione tecnica importante, fra i giovani va sostituendosi un senso di attendismo e di ignavia. Girano in tondo con i cellulari sempre connessi, cercando risposte.
Nell’Italia dove Davide Casaleggio va al Corriere della Sera a raccontare che fra trent’anni vivremo tutti di reddito di cittadinanza e che le macchine faranno il lavoro al posto nostro, smentito con dati e fatti dalla Cisl e da Confindustria e da un ampio sorriso di Urbano Cairo, non si vende più niente: chi li ha, tiene i soldi fermi, e abbiamo smesso perfino di desiderare. Le boutique rimandano gli ordini sine die. Come vada all’estero dipende dalla congiuntura e, secondo quanto dice al Foglio il presidente di Confindustria Moda e di Herno Claudio Marenzi, “bisogna adattare continuamente strategie e listino prezzi”.
In generale non va malissimo, ma sui destini dell'abbigliamento nazionale pende sempre la spada di Damocle dei dazi paventati da Donald Trump e della Russia in affanno di Putin. I buyer che si salvano sono quelli che vivono di “parallelo”, modo elegante per definire la vendita all’estero partite di merce griffata a rivenditori che non potrebbero permettersi di stringere accordi con le grandi case, cioè il sottobanco. Di Dolce&Gabbana, che ha presentato una collezione di tale classica quietudine da sembrare uscita dai libri di moda fine Cinquanta, si dice stia cercando accordi e un’intesa con il governo cinese, perché la perdita di credibilità dopo il famigerato spot “del cannolo” è stata tale che si parla non solo di una perdita di fatturato imponente, ma anche di un drammatico effetto domino fra i paesi che fanno affari con la Cina.
I conti di tutti i negozi multimarca, a detta degli stessi, li fanno Gucci e Moncler, che ha aperto alla città di Milano la spettacolare installazione del progetto Genius nei Magazzini Raccordati, prossimi al recupero grazie a un accordo con il Comune di Milano (all’evento di domenica 24 febbraio si erano iscritti in cinquemila). Intercettare l’evoluzione del vestire e lo scarso desiderio di farlo è diventato un esercizio difficilissimo anche per noi. Purtroppo, spesso, quello che piace alla stampa non piace alla gente, o forse non piace subito e richiede un carotaggio, una fase di adattamento e un processo di semplificazione, prima di entrare nella visuale di tutti, che è poi sempre quella del cellulare. Un grande gruppo editoriale ha iniziato a far pagare ai brand perfino i post a bordo sfilata dei suoi giornalisti. La notte degli Oscar non è più il luogo imprescindibile della moda mondiale: non ha trovato un conduttore, e anche sul red carpet, le griffe non si sono più contese lo styling dei finalisti. Hollywood sta lentamente declinando, mentre sale la stella di Netflix con i suoi serial distopici e inquieti. Esattamente come il mondo raccontato in passerella.
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