Chi vince veste
Emulazione simbolica: se si dominano i flussi finanziari, si detta legge anche nella moda e nello stile. Come nel Siglo de oro e poi a Versailles
"Haha, e che vuole andar in giro tutta abbigliata? E’ per caso una spagnola?", ridacchia il cieco Felicio ne “Los embustes de Celauro” di Lope de Vega di una dama italiana che dice di volersi comprare “sayuelo y basquina”, camicia e baschina, per ben figurare in società. Siamo attorno al 1614, la Guerra dei Trent’anni deve ancora scoppiare e la Spagna domina anche nello stile il mondo conosciuto attraverso i suoi possedimenti che coprono una parte importante dell’America del sud, la Spagna, il Portogallo, il nord e il sud dell’Italia, da Napoli alla Sicilia, le Fiandre e le Filippine. La baschina, la falda che scende rigida e ornata dal punto vita dei bustini, posandosi sulla gonna rigida e ampia, è la tendenza forte del momento e lo sarà per altro mezzo secolo, sostanzialmente fino alla pace dei Pirenei e al lento tramonto del regno sul quale, per oltre un secolo, non è davvero mai sceso il sole. Un testo coevo per viaggiatori in vena di shopping suggerisce che “per vestirsi alla moda” bisogna comprare le scarpine con la suola in sughero a Valencia (nota: ma come, non le ha inventate Salvatore Ferragamo?), i bordi auroserici per decorare gli abiti a Milano, una tradizione che datava dal tardo Medioevo e che, per certi versi, non si è estinta nemmeno oggi che le grandi griffe si rivolgono a Como per i tessuti più preziosi, mentre i profumi “y otros olores suaves” devono passare necessariamente dai porti delle Fiandre, perle e coralli provenire dalle Indie occidentali. L’autore concede, anzi consiglia, una visita a Roma per la dovuta provvista di reliquie (“agnus y demas reliquias”), evidentemente più certificate attorno al Tevere e alla erigenda Basilica di San Pietro che altrove, ma pare ovvio che in quello sfolgorante Siglo de oro, lo stile europeo nasca dagli Asburgo di Spagna, esattamente come avverrà dal 1660 in poi con la Francia e dalla metà del Novecento con gli Stati Uniti e con il solo grido di dolore di Alberto Sordi (“ammazza che zozzeria”) a contrastare una marea di gonne a ruota, code di cavallo alte e di epigoni di Elvis Presley.
In quel secolo sfolgorante, lo stile europeo nasce dagli Asburgo di Spagna, proprio come avverrà dal 1660 in poi con la Francia
L’import è faccenda psicologica ben prima che politica, come osservano in questi giorni i detrattori più acuti dell’accordo quadro fra Italia e Cina. Moda e desiderio di acquisto sono dominati dal potere politico del momento, come accade adesso quando ci domandiamo chi mai vestirà quelle sete gialline e rosa e quei kimono di ispirazione che Gucci e Louis Vuitton mandano in passerella e poi alla sfilata successiva scopriamo che li hanno addosso tutte le influencer cinesi mentre noi ci siamo limitate alla solita borsetta col motivo bicolore nelle tinte che già usava Leonardo da Vinci. Chi vince veste; chi domina i flussi finanziari detta legge anche nella moda e nello stile, e dopotutto noi ci siamo liberati davvero delle finte griffe americane fabbricate a Sesto Fiorentino solo dopo la crisi del 2008. Ci appropriamo dei simboli del vincitore con la stessa logica delle tribù primitive, in un ciclo eterno, continuo e trasversale a società e culture: funziona fra i papua come fra i milioni di ragazzine che comprano la stessa borsa vista al braccio di Gilda Ambrosio e di Chiara Ferragni su Instagram. L’emulazione simbolica. In hoc signo vinces, fosse pure una scomodità assoluta come il verdugado, cioè il guardinfante, la creazione spagnola primigenia di tutte le campane, i ballon, i panier, i faux cul, i sellini, le tournure e tutte le terrificanti strutture architettoniche entro i quali le donne si sono costrette fino ai primi del Novecento. Il sostantivo verdugado indicava al tempo stesso un boschetto fronzuto (le stecche erano fatte perlopiù in giunco o in legno di rosa) o il boia, elemento di una qualche inquietudine in una lingua in cui la gravidanza si definisce embarazo e il travaglio si rifà a una tortura in uso fra i romani, ma pare che la moda del giardinetto o del carnefice per sostenere le gonne fosse stata accolta con gioia assoluta. In quel Seicento barocco e nero di devozione furiosa, anche il sostantivo che lo indicava si era diffuso come un fulmine. In italiano si diceva verdugale, verducato o anche faldiglia, (che era comunque un derivato spagnolo): compare in molti testi satirici come esempio di insopportabile artificio, fatto per nascondere eventuali malformità femminili e dunque gabbare i pretendenti. In francese viene tradotto come vertugadin, lo si trova indossato anche dalla buona fata di Cenerentola nella versione secentesca di madame d’Aulnoy ma indossato al contrario, cioè sopra il vestito come avrebbe sperimentato Rei Kawakubo nel 2012, ed è forse questa la nota più significativa, se si considera che con l’ascesa di Luigi XIV e della moda di Versailles, forme e nomi del guardinfante sarebbero diventati inesorabilmente francesi. Meno rigidi e a cono, più rotondi. Tempo qualche decennio e sarebbero arrivati i panier, larghi come le ceste per il pane da cui traggono il nome.
Quando l’infanta Maria Teresa arrivò al confine con la Francia per andare sposa a Luigi XIV, i cortigiani la trovarono “horrible”
Rimugino queste cose di fronte alle Meninas di Velázquez, sala 12 del Museo del Prado, dove sono stata attratta inesorabilmente lungo un weekend di famiglia a Madrid molto tollerante: io Museo del Traje (“nooo, i Balenciaga del periodo spagnolo no”) e, parzialmente, Prado; marito e figlia passeggiata nelle vie chic; ricongiungimento familiare davanti ai Vlaminck del Thyssen che, fra le altre cose, ha un ristorante niente male in giardino, nascosto fra cespugli altissimi di camelie rosse. Velázquez, oltre a essere il genio della ritrattistica che si sa e che è il vero motivo per il quale il re se lo tenne a vivere in un appartamento con annesso studio andando tutti i giorni per trentasette anni a vederlo lavorare, certo non per le origini del pittore che allignavano fra la piccola nobiltà sivigliana, era un abilissimo interprete del linguaggio dei vestiti e un raffinato conoscitore dei gioielli, dei tessuti e delle possibilità di resa pittorica che offrivano. Nella sala 12 dell’infinito museo pieno di santi e martiri c’è tutto quello che serve sapere sulla ritrattistica ufficiale di Velázquez e sulla sua capacità di infondervi naturalezza, sentimento e anche qualche messaggio in codice. Il più evidente emerge proprio dal ritratto della regina Elisabetta/Isabel di Borbone a cavallo (1634-1635) che, a una prima occhiata, sembrerebbe il classico dipinto equestre di un personaggio reale: la storia dice che ebbe addirittura tre fasi di realizzazione, di cui una eseguita da un allievo del maestro, in quel momento in Italia per il suo primo viaggio di acculturamento e acquisti (“el rey” Felipe IV, che da bravo collezionista aveva l’occhio lungo, l’aveva mandato a Roma con il compito di portargli qualche dipinto di Claude Lorrain, all’epoca non ancora famoso). Si dice anche che la figlia di Enrico IV e di Maria de’ Medici, a cui somiglia moltissimo e con la quale infatti scambiava una quantità inverosimile di lettere su ogni minuto fatto della propria esistenza e in particolare su quelle benedette gravidanze che per una regina erano l’unico compito da dover portare davvero a termine (vennero esposte diverse missive sul tema fra madre e figlia in una mostra di qualche anno fa a palazzo Strozzi, a Firenze, si parlava molto di fasciatura di infanti), fosse di “carattere gioviale e ben disposta verso il prossimo”. Più discretamente, a corte si diceva anche che fosse più intelligente del marito e che, proprio in virtù di questo, avesse saputo adattarsi perfettamente ai rigidissimi dettami della corte spagnola in materia di etichetta. Osservando il quadro, si capisce anche che madame era in grado di beffarsi di tutti, e che non avesse affatto dimenticato le proprie origini francesi e italiane. Sopra la camicia, il sayuelo, e il giubbone, indossa infatti un incredibile colletto doppio: quello sottostante (occhio alle simbologie), alto, aperto e rigido, tuttora il tipo di struttura inamidata con il bordo di pizzo che le bambine riproducono per istinto e memoria quando disegnano “una principessa”, è il colletto alla francese, detto “collo Medici” perché introdotto dalla madre di Elisabetta alla corte di Francia. Questo è un po’ meno rigido, si abbassa anzi sul petto e scende a punta perché, sopra, accoglie il classico colletto spagnolo dell’epoca, la gorgiera rigida o “lattuga”, da cui la decodifica per gli osservatori: ho accolto gli usi della Spagna, terra di cui sono diventata regina per matrimonio, ma sono e rimango francese. E pare di vedere don Diego Velázquez, cronista dell’epoca, che sorride mentre apporta gli ultimi tocchi al collo della regina, inevitabilmente nascosto e pure necessariamente allungato dal doppio accessorio e dall’acconciatura altissima sul capo per riproporzionare il tutto.
Moda e desiderio di acquisto sono dominati dal potere politico del momento. Un ciclo eterno, trasversale a società e culture
Lo sforzo dei pittori dell’epoca per sacralizzare la postura dei loro soggetti aristocratici o reali è evidente quando se ne paragona il lavoro coevo su altri soggetti, come risulta chiaro proprio in Velázquez, nel dipinto delle “Hilanderas o la Fabula de Aracne”, di grande forza, movimento e modernità (pare di vederlo girare, l’arcolaio, sotto la spinta del piede nudo della giovane popolana con il capo coperto), e nel celeberrimo “Las Meninas” (il suo titolo originale era “La familia”), di cui nessuno ha ancora sondato a fondo i tanti segreti. Come si sa, il quadro che Luca Giordano definì “la teologia della pittura” riproduce una scena intima e sentimentale: l’infanta Margherita, prima figlia di Filippo IV e della seconda moglie, Marianna d’Austria, circondata dalle sue damigelle d’onore, ed è ambientata nell’appartamento-studio del principe Carlo Baldassarre che il re aveva concesso al pittore attorno al 1650. L’interpretazione generalmente condivisa è che l’opera rappresenti un ritratto dell’infanta mentre si reca in visita nello studio, ma che grazie all’incredibile gioco degli specchi, tutti gli sguardi siano al tempo stesso concentrati sulla coppia reale Felipe-Mariana, che si intravvede in un riflesso (o forse è a sua volta un quadro?) e che tutti i personaggi dipinti guardino allo stesso tempo l’osservatore, cioè chi guarda. Ammirandolo per la prima volta nell’Ottocento, Théophile Gautier si lasciò andare a un paradosso: l’unica cosa che manca qui, disse, è il quadro. Tutti guardano, e tutti vengono guardati. Ma non tutto quel che si vede, come sempre, è ciò che appare. Il particolare estetico più misterioso che emerge è la croce dell’ordine di Santiago, dipinta sul farsetto di Velázquez, che ottenne però l’onorificenza solo nel 1659, cioè un anno prima di morire e tre anni dopo aver completato il quadro, al punto che leggenda vuole sia stato lo stesso re (“sono annientato dalla sua morte”, scrisse a margine di una lettera riguardo la scelta del suo successore) ad averla dipinta. I particolari e gli aneddoti più divertenti riguardano invece l’abbigliamento e soprattutto le pettinature delle damigelle dell’infanta. Introdotto da Marianna, che lo adorava, il “peinado a juego”, una sorta di enorme calotta di capelli veri e finti intrecciati a farfalline di organza, che aveva l’obiettivo di bilanciare l’immenso guardinfante “de codos”, cioè talmente alto, largo e rigido da poter essere portato solo con i gomiti appoggiati sopra, fu l’unico elemento dello stile spagnolo che prese piede solo in Spagna, a dispetto della sua potenza e della sua gloria. Era troppo brutto. Quando, in quel 1659, l’infanta Maria Teresa, figlia di primo letto di Filippo, arrivò al confine con la Francia per andare sposa a Luigi XIV abbigliata con un verdugado ampio due metri e quella cofana di capelli, i cortigiani arrivati ad accoglierla trovarono che fosse né più né meno che “horrible”. Il palazzo d’Oriente di Madrid stava lasciando il posto, definitivamente, a Versailles.
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