Le scarpe da tennis di papà tornano di moda, e pure certi marchi italiani
Fila e Sergio Tacchini, fallimenti e rilanci paralleli
Roma. Andrebbe studiata per bene questa evoluzione di alcuni marchi caduti in disgrazia, respingenti, considerati un po’ da sfigati, che superano gli anni Duemila e poi tornano come degli zombie, ma riprendono vita, sono meglio di prima, e diventano il must have dei giovani e della middle class soprattutto asiatica. Diciamo la verità: la maglietta della Fila, le scarpe di Sergio Tacchini non erano esattamente garanzia di popolarità per chi frequentava il liceo tra la fine degli anni Novanta e il nuovo Millennio. E non tutto può essere spiegato con l’ossessione dei millennial per il vintage, di cui si parla spesso sbagliando altrettanto spesso analisi, categorie d’età e target. Ma c’è un segnale infallibile per capire quando un marchio è di successo: le imitazioni.
Di magliette bianche con la tradizionale scritta rossa bianca e blu “Fila” sul petto da un po’ di tempo è pieno il Dongdaemun Market di Seul, perché quella originale è troppo costosa, e allora alla domanda si fa fronte con un’offerta più abbordabile, anche se non proprio legale. Ma che importa: purché se ne parli, o meglio, purché il marchio giri. La Fila, nata nel 1911 in Piemonte grazie ai fratelli Fila, è stata una grande storia imprenditoriale italiana ma oggi lo è della Corea del sud. Secondo gli analisti asiatici, uno tra i casi di maggior successo di acquisizione di un marchio straniero. Yoon Yoon-soo, meglio conosciuto come Gene Yoon, oggi settantatré anni, è l’artefice di questo rilancio. Dopo una laurea in Scienze politiche e un curriculum manageriale di tutto rispetto dentro a varie aziende di import-export, entra nel dipartimento internazionale di Fila nel 1991, e lì si fa strada fino ad arrivare al gran colpo, nel 2007, con l’acquisizione dello storico marchio Fila nel 2007. Che nel frattempo ne aveva viste di bruttissime, passando per la holding Gemina e il fondo di investimenti americano Cerberus – fino al declino definitivo intorno ai primi anni Duemila. Erano ormai passati gli anni Settanta, quando Fila vestiva tennisti o meglio star planetarie come Björn Borg o Adriano Panatta, o aveva sponsorizzazioni di successo come quelle con Alberto Tomba e Reinhold Messner: per i giovani la Fila era diventata “quella delle scarpe di papà”, scriveva ieri Bloomberg. Ma arrivato a dirigere l’azienda, Yoon capisce che bisogna cambiare il target e rivolgersi non più ai 30-40enni ma ai ventenni, abbassando i prezzi. La classica scarpa bianca Fila “Disruptor 2”, lanciata nel 2017, torna a essere la più popolare del mondo, Rihanna pubblica foto su Instagram con quelle sneakers, e per la prima volta si aprono le porte della Milano Fashion Week, lo scorso anno. Oggi il valore di mercato del marchio è di 4,3 miliardi di dollari.
Sempre più aziende di moda italiane dipendono – letteralmente – dal mercato asiatico, specialmente da quello cinese, ma è anche vero che in alcuni casi sono state proprio le acquisizioni asiatiche ad aver fatto rivivere un marchio italiano. Nel caso di Fila, per esempio, mantenendo stile e creatività in Italia. Quella del marchio Sergio Tacchini è un caso più complicato, ma altrettanto simbolico. Tacchini, novarese, ultraottantenne ex campione di tennis, nel 1966 abbandona l’attività agonistica e fonda un’azienda che veste i suoi colleghi, fa sponsorizzazioni, diventa il marchio globale del tennis e dello sport. Poi arriva la bancarotta, e con quella pure le opportunità per i businessman asiatici. Come Fila, nel 2007 il marchio Sergio Tacchini viene acquisito dalla Hembly International Holdings di Hong Kong presieduta da Billy Ngok, che promette di farne un colosso. Ma non funziona, e nel 2014 c’è un nuovo cambiamento, il marchio viene affittato alla hongkonghese Wintex, che lo affida al suo ramo italiano. Patrizia Bolzoni, da allora direttore generale, ha spiegato di recente a Fashion Mag che sono stati fondamentali per il rilancio del marchio “il prodotto e l’heritage”, cioè il rilancio del vintage, ma leggendo tra le righe si capisce pure l’importanza del mercato asiatico e, molto di più, della comunicazione. “Il 2018 è stato archiviato con un giro di affari da 50 milioni di euro, in crescita del 10 per cento sul 2017”. Per il 2019 punta a chiudere con 55 milioni di euro. Grazie ai social, che fanno diventare virale un marchio considerato morto, e grazie alle collezioni tra il vintage e il tennis – che è uno degli sport più praticati in Asia, assieme al golf. La nuova collezione ispirata a Los Angeles, per esempio, diretta da Chris Ivery (produttore, marito di Ellen Pompeo) e Stefano Maroni ha generato moltissime stories su Instagram, che incredibilmente poi si traducono anche in vendite. Chissà se poi, alla fine, questa globalizzazione non abbia fatto bene pure a chi non la voleva.