I forzati dello show
Passo 284 giorni all’anno sotto le passerelle a seguire le sfilate. Gli eventi si moltiplicano, i budget si dimezzano. Tutto per una foto
Con Diego (Della Valle) abbiamo molte cose in comune: indossiamo giacche doppiopetto che non allacciamo solo perché sfinano, ci piace la buona cucina, amiamo la moda e oh, portiamo entrambi sciarpe attorno al collo”. E fa il gesto di sventolare quel drappo di seta bianca sottile che porta annodato stretto sulla pelle nuda, come “Diego”, che invece guarda sempre un po’ allo stile Chateaubriand-ritratto-nelle-brume-della-Bretagna, non farebbe mai. In piedi fra le arcate di cemento del Palais de Tokyo, dov’è allestito un lungo tavolo bianco ricco di dettagli colorati, tovaglioli, piatti, pinzillacchere graziose, Alber Elbaz è tornato a fare moda per Tod’s cinque anni dopo, giorno più giorno meno, il divorzio molto sofferto da Lanvin, di cui aveva determinato il rilancio mondiale e che oggi, senza di lui, galleggia nelle nebbie della vacuità stilistica. Con quel visino tondo da bambino delle pubblicità Petit Bateau primi Novecento, i capelli ossigenati, le scarpe dalla punta tonda e ricurva che stanno bene solo a quelli della moda e sugli altri fanno clown o buttero e non se ne capisce la ragione, monsieur Elbaz, un tempo allievo brillantissimo dello Shenkar College di Tel Aviv, ha disegnato una collezione di accessori dai colori accesi che ha battezzato, molto appropriatamente, “happy moments”, infilando il proprio ritratto a fumetto nella O del marchio. Nessuno l’ha dimenticato perché è stato sempre molto amato (“per anni ho pensato di abbracciare le donne con i miei abiti e quegli abbracci sono tornati a me”, disse qualche mese fa, intervistato da BoF, molto ghemilut chassadim, il precetto della “gentilezza amorevole”). Lo incontrammo un paio di anni fa, in occasione della mostra sulla Menorah sponsorizzata dalla Ronald Lauder Foundation ai Musei Vaticani, a cui il suo compagno aveva collaborato, e non era felice com’è oggi.
A un certo punto si perde il conto dell’investimento necessario per esserci sempre, a spese proprie o altrui
Il grand train della moda dà assuefazione, e adesso che va sempre più di corsa, accoglie passeggeri finora sconosciuti e prende destinazioni sorprendenti, a scendervi per qualche tempo si teme di non riuscire a risalirvi più. O, peggio, di aspettare il convoglio festante nella stazione sbagliata. Chi ne fa tutte le tappe, riesce a stare fuori casa e ad applaudire gonne, scarpe e cappotti anche per centocinquanta giorni all’anno, forse centottanta. Magari duecento. Quanti siano esattamente è difficile dirlo. Si perde il conto. Delle gonne e dei cappotti visti, naturalmente e salvo eccezioni, in special modo nella haute couture dove in genere tutto è eccezionale, vedi Valentino che detta la linea tutte le volte. Ma soprattutto si perde il conto dell’investimento necessario per esserci, a spese proprie o altrui, cioè del marchio stesso, in un sottile e continuo gioco di potere fra testate, maison e relativi uffici pubblicità, firme, influencer, attori, buyer e – new entry – i clienti finali, che per sessant’anni sono stati a lungo il convitato di pietra di questi appuntamenti ma ora, in anni di multinazionali del consumo di lusso, dove bisogna mantenere fatturati in crescita un trimestre dopo l’altro, ne sono i protagonisti.
“Lasciami fare i conti, amore”, risponde al telefono Beppe Angiolini, il più famoso buyer italiano, che da Arezzo governa un business multimilionario fatto di collaborazioni e compravendita di moda in tutto il mondo e che porta a sua volta le scarpe con la punta tonda all’insù. Elenca: “Andiamo con ordine: le quattro collezioni uomo e donna semestrali nelle quattro fashion week canoniche, New York, Londra almeno un po’, Milano e Parigi, senza contare il co-ed (le sfilate uomo-donna, nda) e che comunque è già una tendenza al tramonto, uhm, diciamo otto settimane. Poi, le pre-collezioni e le cruise, che non si sa mai dove verranno organizzate e dove adesso è fondamentale esserci perché sono i grandi show del momento, e anche le collezioni che vendono meglio, fino al 60 o in alcuni casi l’80 per cento del fatturato. Mah, vogliamo dire complessivamente un altro mese?”. Aggiungete le due settimane della haute couture, l’unica kermesse fieristica che non sia sparita dai radar, Pitti Uomo naturalmente, due volte all’anno (altri otto giorni complessivi), Altaroma per chi ha a cuore le sorti delle nuove generazioni di designer (un’altra settimana) e infine il Salone del Mobile di Milano, dove le performance della moda equivalgono ormai a quelle del design canonico, e siamo arrivati a sedici settimane.
Spesso la maison sostituisce con gli influencer parte delle risorse che un tempo avrebbe destinato a una campagna pubblicitaria
Centododici giorni minimo solo a guardare e a esserci, ed escludendo naturalmente l’attività del buying, cioè gli acquisti, facciamo un altro mese e mezzo: “Viaggiare così a lungo è una grossa spesa, anche se talvolta vieni invitato, e potrei guardare tutto online, certo, ma se comprassi solo in showroom, senza frequentare le sfilate e parlare con i designer, non riuscirei a trasmettere la stessa emozione ai miei clienti”, dice Angiolini. E’ domenica mattina presto, ma l’abbiamo chiamato lo stesso perché ha appena postato una foto della chiesa di Saint Sulpice accompagnata dall’hashtag #bellejournee e #dimanche, segno inequivocabile di veglia. Sul suo account Instagram, il past president della Camera dei Buyer di Moda ha circa 44 mila follower. Insieme con Suzy Menkes, Obe (Order of the British Empire), la decana del giornalismo di settore, da qualche anno firma di punta del sito internazionale di Vogue, che ne ha dieci volte tanti, 476 mila, è la cartina di tornasole di dove-ci-si-debba-trovare e in quale momento: Angiolini è più selettivo ed eclettico (la mattina tende a distillare pillole di saggezza, ogni tanto posta foto della mamma, attorno ad aprile anche i gioielli della manifestazione OroArezzo, di cui è direttore creativo); la Menkes è una monotematica di fama leggendaria almeno quanto la sua acconciatura. Si occupa esclusivamente di moda dal 1966, quando la maggior parte degli editor di oggi non erano neanche nei sogni delle loro madri. Spiritosa (“un giorno vorrei essere come lei”, le disse anni fa un ragazzino, prostrandosi; lei si mise a ridere: “Sounds alarming”, che paura), inarrestabile, arriva ovunque prima degli altri. Tranne a shabbath e ovviamente prima del tramonto, perché sabato scorso, alla sfilata della cruise Miu Miu 2020 all’ippodromo di Parigi, cavalli tenuti al petit galop perché non soffrissero troppo il caldo, c’era, a dispetto della maggior parte della stampa italiana, perché anche una notte in più a Parigi inizia a pesare sui conti delle case editrici, e mettersi sempre nei panni dell’ospite espone a sudditanze non dichiarate, ma ovvie. Aggiungendo convegni, cene, presentazioni, mostre accessorie, il computo della Fashion Travel Inc sale dunque e facilmente ai centottanta giorni che si ipotizzavano nelle prime righe e a un impegno pressoché quotidiano di scrittura.
Certo, si potrebbe vedere tutto, o quasi, anche dalla scrivania, convegni compresi, dove il podcast è diventato un obbligo, ma chi lo fa è perché non può agire diversamente, per questioni di tempo, di budget, di inviti mancati, di altri impegni temporanei e, in ciascuno di questi casi, si sente vagamente o anche veramente in colpa. “La moda è una famiglia disfunzionale”, disse sempre Elbaz in quell’intervista di BoF: “Ma è pur sempre una famiglia”. Dove, dunque, ci si osserva e ci si controlla: “Sto in mezzo a una strada al caldo da due settimane, non vedo l’ora di andare a casa”, sbuffava un’altra di queste decane qualche settimana fa a Pitti, ma provate a mandarcela. Le occasioni si sono moltiplicate, come osserva Cinzia Malvini, direttore di Book Moda e volto di riferimento del settore per La7, ma modi e tempi per esserci si sono drasticamente ridotti. La crisi della carta stampata, l’irruzione degli influencer e per l’appunto dei clienti finali, attori che, fondamentali nel sistema da sempre, sono stati invisibili fino a qualche anno fa, ma ora hanno cambiato la composizione delle sale sfilate, dei cocktail e dei famosi viaggi in prima classe che, in tempi difficili, sono diventati guiderdone e merce di scambio a ogni livello, ma con nuove graduatorie.
I clienti finali per sessant’anni sono stati i convitati di pietra di questi appuntamenti, c’era una distanza siderale tra loro e la maison
Chi spende cento, duecentomila euro all’anno in vestiti acquisisce il diritto a quel genere di trattamento che fino a pochi anni fa toccava solo il settore delle auto sportive e delle barche, ritenuto meno glamourous a dispetto delle cifre infinitamente più significative che sposta, e in primo luogo i giornalisti. “Sfilata, accoglienza in un grande albergo, visita all’archivio, guide dedicate nei musei, incontro con il designer: il contatto diretto con i clienti è diventato un momento fondamentale”, osserva Carlo Mengucci, direttore marketing e comunicazione di Etro, influencer di peso in proprio. Lo scorso novembre, quando la polizia di Shanghai irruppe alle prove della sfilata di Dolce&Gabbana per identificare le modelle dopo le offese rivolte da Stefano Gabbana alle tradizioni e al popolo cinese, una buona parte di chi andava provandosi gli abiti sotto le luci della passerella era per l’appunto un cliente, di peso ponderale e altezza variabili o, per usare un termine molto di moda, “inclusivo”, cioè mediaticamente spendibile. Quella volta andò storta, come si sa, e come non pare essere stato ancora risolto, ma di solito la passerella variopinta di Dolce&Gabbana è un successo ed è particolarmente allegra, soprattutto per le occasioni di rilancio social e di contatti che garantisce. È il solito vecchio gioco dell’accesso al club esclusivo, che fino a oggi la moda non aveva praticato, ponendosi come irraggiungibile in particolare a chi vestiva per davvero. Spendevi sempre di più. E contavi sempre di meno.
Adesso, ti chiedono il contatto mail per l’acquisto di una cintura, e con tre abiti da sera entri alla sfilata. “Un tempo la presentazione delle collezioni era un momento di lavoro per stampa e buyer: la globalizzazione e i social media ne hanno cambiato il volto e anche, in parte, gli scopi, trasformandoli in momenti di comunicazione che sfrutti su molti fronti“, osserva Giorgio Guidotti, direttore comunicazione del gruppo Max Mara, hashtag #iwanttolivelikeguidotti, che un mese fa ha organizzato la sfilata cruise al Neues Museum di Berlino, la stessa città dove portò una mostra dieci anni fa, ma al Pergamon, e con un mix molto diverso: “Gli influencer, che noi definiamo ambassador, contano moltissimo, fra il 16, 20 per cento della comunicazione totale: queste sfilate speciali, le pre e le cruise ancor più delle collezioni semestrali, sono anche occasioni per presentare profumi, gioielli” e, come dire, massimizzare il budget, benché talvolta la cifra messa in campo sia davvero al di fuori della portata di quasi tutti i brand.
“La moda è una famiglia disfunzionale”, dice Elbaz. Ci si osserva e ci si controlla. Gli appuntamenti che raddoppiano
La sfilata cruise di Dior a Marrakech dei primi di maggio entrerà nella storia non tanto e non solo per la collezione, ma per il faraonico trattamento destinato agli ospiti: “Quasi una settimana di soggiorno al Mamounia per dodici minuti di sfilata cambiano inevitabilmente i rapporti di forza fra chi presenta e chi assiste”, dice un altro di questi pr che, senza dubbio, vorrebbe aver accesso agli stessi budget. “Il New York Times non accetta viaggi pagati, per questo ho visto la collezione Dior Cruise sullo schermo del mio pc”, fu la premessa della recensione di Vanessa Friedman, penna fra le più colte della famosa famiglia disfunzionale. Ma non è solo questione di equilibri e di sudditanze: spesso una maison vuole diventare “trending topic” della giornata e “break the internet”, e sostituisce con i filmati e le foto degli ospiti parte delle risorse che un tempo avrebbe destinato a una campagna pubblicitaria. Le spese in comunicazione rimangono sempre, in percentuale, quelle di un tempo, anche per i giganti come Dior, i cui direttori creativi producono alla fine collezioni belle davvero. Vengono solo allocate diversamente. Conta anche la cosiddetta location, termine orrendo che ormai usa anche il pizzicagnolo per vantare il matrimonio del nipote (“una location da sogno”, detto come nel dépliant) e che non si riesce a sostituire. Non sarà un caso se Roma, immondizia e torme di turisti straccioni a parte, negli ultimi tre mesi ha attratto tre degli eventi di maggiore rilievo: Gucci, Bulgari, Fendi. D’altronde, come dice un’amica, se di Roma guardi solo obelischi, statue e cielo, resta la città più bella del mondo. Il guaio è che non ti accorgi di quello che calpesti.
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