La sfilata di Fendi al Palatino con vista Colosseo, il 4 luglio scorso. "The Down of Romanity" ha richiamato oltre seicento ospiti (Foto LaPresse)

L'impero della moda

Fabiana Giacomotti

Dalle sfilate alla Rupe Tarpea alla Magna Grecia. Il nostro passato splendore vende bene. In versione Hollywood sul Tevere

Intrigate da un incontro nel Ridotto dove ci aveva divertite molto, e nonostante tutta la letteratura negativa sullo spettacolo che proveniva da Oltreoceano dal 2008, cioè da molto tempo prima che l’ondata del #metoo e del politicamente corretto travolgesse anche lui, l’altra sera siamo andate anche noi alla Scala a vedere la regia del Gianni Schicchi firmata da Woody Allen. “It’s like “Radio Days” at the opera, with the italian mafia replacing jews”, aveva scritto a suo tempo il sito Opera, e noi eravamo lì per smentirlo. La mafia al posto degli ebrei, figuriamoci, quando poi c’era la cugina Ruthie che cantava “South american way” come Carmen Miranda per cui abbiamo una venerazione anche noi. Invece aveva ragione. Era proprio cosa nostra e della peggiore specie, quella vetero-macchiettistica: si sentiva il Pietro Germi di “Divorzio all’italiana” perfino nei movimenti di scena, con la famiglia Donati dietro alla porta ad aspettare il “notaro” come il barone Cefalù padre dietro alle persiane a spiare il paese che dà del cornuto al figlio e tutte le donne del clan dietro, timorose e isteriche: “It’s so Woody it isn’t even funny”, aveva scritto il sito. Già, è talmente Woody che non fa nemmeno ridere. Da italiane orgogliose come siamo a dispetto del decreto sicurezza era, anzi, parecchio irritante.

 

Però, mentre ce ne stavamo lì fumanti a guardare Lauretta in abituccio nero stile Dolce&Gabbana che brandiva un coltello a serramanico all’indirizzo della futura zia, sperando che la coppia di americani seduta alle nostre spalle non annuisse divertita e complice (l’ha fatto), ci è sembrato però di capire la ragione per la quale tutti gli stilisti e le maison gioielliere di origine italiana quest’anno abbiano sfruttato le proprie conoscenze al Mibac per sfilare nei sacri luoghi della Magna Grecia o della romanità imperiale, garantendo come contropartita aiuti più o meno sostanziosi al restauro e al mantenimento di beni archeologici e storici nazionali. Perché dei quattro stereotipi su cui campano da secoli il nostro turismo, il nostro shopping e la nostra produzione cinematografico-televisiva, e cioè la “Dolce Vita”, il Neorealismo, Cosa Nostra-con-derivato-’ndrangheta per via di “Gomorra” e l’Impero romano, quest’ultimo è di gran lunga il migliore. Il più spendibile e al tempo stesso il più qualificante, soprattutto di questi tempi in cui c’è poco da vantarsi in giro di qualcosa.

  

“Limperoromano” è un mix non molto definito ma molto cool dove trovano posto palazzi grandiosi, ozi e piscine. Gli stilisti lo sanno 

La “Dolce Vita”, ammettiamolo una volta per tutte, ha un coté pappone; il Neorealismo trasuda miseria e tristezza; sulle derive sociologiche di “Gomorra” e del loro ascendente imitativo non abbiamo ancora finito di interrogarci (nemmeno gli psicologi). E invece, guarda l’Impero romano. Anche se non se ne sa niente, anzi soprattutto della società romana classica si è mandato a memoria solo l’interpretazione in sete porpora e calzari di gomma dei peplum hollywoodiani con Victor Mature, solo a dire “limperoromano”, si sente il garrire delle buccine. Dopo il bagno nell’oceano californiano e, va riconosciuto benché sia più cosa cinéphile, i film Titanus degli anni Hollywood sul Tevere, genere “il figlio di Spartacus” o “Sodoma e Gomorra”, finanziamenti americani, regia di Sergio Leone e Robert Aldrich, “limperoromano” è un mix non molto definito ma molto cool dove trovano posto palazzi grandiosi, ozi e piscine che anche adesso ne vorremmo di uguali (il professor Paolo Portoghesi se ne è fatta costruire una a modello della vasca di Villa Adriana a Tivoli nel suo buen retiro di Calcata), bei ragazzi a gambe nude e naturalmente tutta una teoria di messaline con i capelli arricciati fissati alti sul capo.

   

Nello storytelling popolare mondiale, l’Impero romano che pure aveva donne avvocato e praticava il controllo delle nascite (“vivit tamquam vicina mariti”, si lamentava Giovenale per queste donne dal piglio paritario che concionavano nel Foro) è muscoloso, maschio e potentemente sensuale, anzi pagano: tutte cose che alla moda piacciono, e non solo a lei. Potete venderla colta quanto volete, evocare le memorie dell’archeologo Paul Veyne come ha fatto Gucci (“Perché solo l’antichità pagana risvegliava il mio desiderio e il mio interesse, perché era il mondo di prima, perché era un mondo abolito”), ma alla fine sono i selfie che contano, e il legionario che staziona fuori dal Colosseo con la sua lorica di latta e la spazzola sull’elmo pronto a concedere un selfie dietro modica spesa è la base, il comun denominatore culturale anche di chi sogna Gucci, Fendi, Bulgari, sapendo che solo raramente potrà concedersene un capo o un accessorio. Pur difendendo standing, status, tradizione e metteteci pure tutte le categorie sofisticate che volete, quando non ci si rivolge più a qualche migliaio di affluenti, ma alle masse mondiali, come fanno i grandi brand da anni, non si può pretendere di sottilizzare, ché poi si diventa antipatici, elitari e divisivi, e sapete che cosa succede adesso, a voler fare gli elitari: si perdono le elezioni e la gente ti dice parla come mangi, anche se tu non mangeresti mai come loro parlano.

    

  

Dunque, ecco Gucci ai Musei Capitolini con recupero annesso della Rupe Tarpea che, essendo in tufo, è sempre a rischio di sgretolamento; ecco Bulgari a Castel sant’Angelo e palazzo Venezia con restauro allegato della zona sacra di largo di Torre Argentina, e ancora Fendi sul Colle Palatino con la prima, incantevole collezione haute couture di Silvia Venturini, altro restauro di 2,5 milioni per il Tempio di Venere che ha suscitato molte e tutto sommato inutili polemiche per la sproporzione fra i costi della serata, circa 8 milioni, e l’ammontare dell’elargizione (qualcuno ricordi ai Torquemada del Mibac che la maison sta finanziando da anni il recupero delle grandi fontane di Roma e, se proprio pensano di averci rimesso, di insegnare ai funzionari del ministero a trattare con maggiore astuzia i loro affari, come osservava l’altro giorno l’amica Barbara Notaro Dietrich che firma le paline e i saggi delle più importanti mostre nazionali, compresa la recente mostra di Palazzo Reale a Milano sui rapporti fra Picasso e l’arte classica da cui emergeva chiaramente l’origine mitologica del #metoo, che però e per fortuna nessuna università americana ha ancora cercato di epurare).

     

Gucci ai Musei Capitolini, Bulgari a Castel Sant'Angelo, Fendi sul Palatino e D&G nella Valle dei Templi. Un tripudio

In questa folle e difficilissima mescolanza fra spinte estetiche politicamente corrette e bisogno di massificare, nei giorni immediatamente successivi alla kermesse “alle origini della romanità” di Fendi, tutta filologia e rimandi elitari, i Dolce&Gabbana hanno allestito una tre giorni alla valle dei Templi di Agrigento con sfilata celebrativa fra le colonne doriche del tempio della Concordia, gioiello architettonico secondo solo al Partenone, offrendo in cambio non si sa bene che cosa ma di sicuro una preziosa collana alla Vergine del Castello di Palma di Montichiaro che il vescovo, forse intuendo la svolta feticistica di un’ipotetica venerazione della “Madonna della collana Dolce&Gabbana”, ha fatto molto giustamente prelevare per conservarla in luogo sicuro. Ne è nata una di quelle polemiche strapaesane a suon di schiaffoni e vocali aperte che fecero la fortuna di Leonardo Sciascia e sulle quali si è innestata la singolare lettera aperta del presidente della Regione, Nello Musumeci, al quotidiano La Sicilia, che invitava i D&G and andarlo a trovare “a Palazzo d’Orléans, sede della Regione”, proprio nelle stesse ore in cui i due stilisti stavano apportando gli ultimi ritocchi ai vestiti e, finiti i festeggiamenti e venduti gli stessi alle clienti sbarcate a Catania in aereo privato, sarebbero ripartiti per Milano. Pura commedia dell’arte.

 

La “Dolce Vita”, ammettiamolo, ha un côté pappone; il Neorealismo trasuda tristezza. Vuoi mettere il fascino di gladiatori e Messaline? 

Sul web vivono le immagini di abiti oggettivamente fantastici, ma anche di uno straordinario accrocchio cartoon modello Hercules disneyano, cerchietti a tronco di colonna in materiale sintetico portati sulle ventitrè come i cappellini di Greta Garbo in “Ninotchka”, lire dorate in guisa di borsette, ragazzoni versione Massimo Decimo Meridio che hanno fatto ululare la collega del famoso quotidiano economico (“me li vorrei portare tutti a casa”). Un tripudio di ori e velluti dal quale il tempio emerge persino piccolo, remoto e insomma un po’ un rudere, ma non ci sono dubbi che sia stato un evento da ricordare, anche per l’impiego di maestranze e abilità locali fra cui, ricordava Agrigento Oggi, “le acconciature di Totò Vella dell’omonima parrucchieria ed Alessio Marchetta che hanno pettinato le celebrities” e qui siamo al puro Gadda. La moda che sposa “limperoromano” e/o “lamagnagrecia” che è già più difficile da spiegare alla milionaria cinese, è una meraviglia di invenzioni lessicali, di declinazioni autoctone cioè dello stilista, di alto-e-basso purché scenografico e tape à l’oeil, cioè roba che dia nell’occhio, in particolare a quello dello smartphone.

 

  

Ormai, quando si spengono le luci prima della passerella finale, si accendono quelle dei cellulari di tutti, ma proprio tutti i presenti (noi comprese, chiaro) per immortalare l’ultima uscita, hashtag #thefinale. Sul trattamento non proprio correttissimo delle donne e dei minori a Sparta, chisseneimpipa. Troppo remoto. E poi, pochissimi nel mondo hanno letto il Gibbon o Arnaldo Momigliano che pure, per sfuggire alle leggi razziali, era scappato a Oxford e da lì aveva scritto e diffuso quel monumento in dieci volumi alla cultura greco-romana e alla sua percezione che sono i “Contributi alla storia degli studi classici e del mondo antico” (1955-2012, questi ultimi naturalmente postumi). E in fondo, ci giochiamo parecchio anche noi che ci vorremmo custodi di tanta sapienza.

  

Non è più tempo di élite, il grande pubblico a cui guarda la moda nulla sa di archeologia. Quel che conta è lo sfondo per un selfie

Ogni volta che si va a prendere il treno alla Stazione Termini, ci si imbatte nel cartellone pubblicitario esposto su una delle facciate di Palazzo Massimo alle Terme, sede principale del Museo Nazionale Romano che, presentando sui suoi quattro piani una quantità innumerevole di sculture, busti, numismatica e oreficeria, straordinari ma non proprio entusiasmanti per la media generale dei turisti che sogna di fotografarsi “on top of the Spanish steps”, si è inventata un claim pubblicitario che lavora nello stesso senso delle ultime sfilate: “Once were romans”, come la canzone degli ex Deo: “Once were men who died for honor / Once were women who made imperial blood”. “Una volta (questi) erano uomini che morivano per l’onore, una volta queste erano donne che davano origine a stirpi imperiali”. Siamo sempre a Victor Mature, al Gladiatore di Russell Crowe, “scatenate l’inferno”, vedete a che cosa si rassegnano gli archeologi italiani, i migliori del mondo, pur di vendere qualche biglietto a gente che non sa granché bene nemmeno dove si trovi.

 

L’altro giorno, tema che dovrebbe far riflettere il vicepremier Salvini, un amico che scattava un servizio fotografico a Miami si è sentito chiedere da un assistente di set se davvero l’Africa fosse quel posto difficile che si dice, e lui che era italiano doveva saperlo bene, trovandosi il suo paese in quel continente; ma anche senza arrivare a questi esempi di splendida ignoranza, che spesso ci sbarcano anche in università a Roma, provenienti da atenei d’Oltreoceano di cui iniziamo a domandarci l’effettivo merito nei ranking internazionali (il presidente Donald Trump non è il solo a credere che George Washington avesse combattuto la guerra di Indipendenza con l’aiuto dell’aeronautica militare), alla media dei visitatori la Magna Grecia di Dolce&Gabbana va benissimo, anzi va meglio di quanto avrebbe fatto quella di Fortuny o di madame Grès. E poi c’è la questione di fondo, che è questa voglia di grandezza di cui sentiamo molto forte il bisogno in questo periodo. Abbiamo bisogno anche noi del nostro storytelling grandioso. A Roma si affoga nell’immondizia, ma vuoi mettere che sotto il pattume c’è il lastricato su cui ha posato i calzari Giulio Cesare. Perseguiamo il blocco dei porti, con risultati alterni, ma c’è stato un momento in cui abbiamo fatto dell’integrazione, controllata certo ma sempre tale, il punto di forza della nostra politica espansiva. C’è stato un momento in cui comandavamo noi. E in tutta questa ostinazione a ribadirlo c’è comunque qualcosa di grandioso.

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