La moda nelle app
Il mondo del fashion ha un’ossessione per il nostro smartphone. Il business si espande, ma erano meglio le nostre bambole di pezza
Convinte dalla ricercatrice più elegante d’Europa, Lisa White di Wgsn, la multinazionale che indica al mondo dello stile e del design che cosa vorrà il pubblico a medio-lungo termine, abbiamo scaricato sul nostro smartphone la app Drest (sottotitolo in stile Frank Sinatra: “Create fashion your way”). L’ha lanciata poche settimane fa in test una vecchia conoscenza, Lucy Yeomans, ex direttore del magazine Porter, cioè ex “giro Federico Marchetti”, insomma Ynap, la multinazionale dell’ecommerce controllata da Richemont che nei giorni scorsi ha subito un calo davvero ingiustificato in Borsa. Inoltre, se era vero che a Drest avevano aderito tutti i grandi nomi della moda, da Gucci a Prada a Burberry, Stella McCartney e Valentino per un clamoroso totale di cento – di cui si diceva che la maggior parte avesse sottoscritto il contratto nell’arco di mezz’ora dalla ricezione della mail con la proposta – informarsi diventava pressoché indispensabile.
All’app avrebbero aderito tutti i grandi nomi della moda, da Gucci a Prada a Burberry, per un clamoroso totale di cento firme
“La gamification è la nuova frontiera del lusso” ci aveva detto White nella pausa pranzo dell’annuale incontro Next Design Perspectives, il summit organizzato da Altagamma nel Gucci Hub di viale Mecenate in una tetra giornata di pioggia, e poteva avere ragione. Secondo le ultime rilevazioni, il gioco online, il “mobile gaming”, dovrebbe infatti toccare un giro d’affari di 70 miliardi di dollari alla fine di quest’anno, e i suoi utenti principali sarebbero le donne, non solo i famosi adolescenti “smanettoni” che ci è sempre piaciuto credere. Dunque, in apparenza, saremmo noi le destinatarie ideali di un passatempo che unisce moda e shopping alle condizioni che ormai ci piace credere siano indispensabili per farlo, e cioè impatto minimo sull’ambiente, costo contenuto e molta soddisfazione; anzi, come si definisce adesso, molta “esperienza”. Sulla app Drest, questo accade in misura più raffinata rispetto a quanto sia possibile fare rispetto alle poche iniziative che l’hanno preceduta, di cui la maggior parte finora è stata dedicata ai bambini, e presenta qualche aspetto eticamente discutibile (la collega Didi Salvadori del Prato, con cui condividiamo un programma radiofonico, ci ha detto che sua figlia decenne trascorre ore in uno spazio virtuale dove, in cambio di prestazioni da sales manager, cioè da commessa, accumula monete virtuali per comprarsi scarpette e borsettine disegnate e colorate, e che non c’è modo di staccarla da quell’universo pop e un filo deprimente). Su Drest si può infatti vestire un avatar con i capi delle ultime collezioni per una frazione del costo del capo vero che comunque, se proprio ci piacesse, potremmo comprare davvero. Per garantire questa possibilità, Yeomans ha siglato un accordo con la piattaforma Farfetch, che garantisce il link con il sito del marchio di moda, la transazione commerciale e la consegna a casa. “In caso contrario, ti diverti e basta”, aveva anticipato Lisa White davanti a un piatto di riso e verdure: “Valuti con un buon margine di precisione come potresti apparire con quel certo look e, se vuoi, puoi postarlo sui tuoi account”.
Qualche giorno prima del summit, in un’intervista online, Lucy Yeomans aveva raccontato che l’idea di una app di fashion styling le era venuta dopo aver notato che nessuna donna di sua conoscenza pubblicava la propria foto con lo stesso vestito su Instagram per più di una volta. Perché non offrirle l’occasione di apparire al meglio per una manciata di sterline o anche gratis? Al momento in test (il lancio effettivo e ufficiale avverrà fra qualche mese), Drest è a libero accesso, ma i giocatori possono comprare pacchetti a 2 sterline e 99 per acquisire i simulacri dei marchi disponibili a un prezzo proporzionato al loro valore reale, da combinare in un outfit completo e da postare, appunto, sui propri profili. Dunque, sacrificando un bel po’ di spazio sul nostro affollatissimo telefono mobile, l’abbiamo scaricato, pensando in questo modo di adeguarci finalmente all’evoluzione dei modelli di acquisto e di entertainment del mondo tecnologicamente avanzato; abbiamo fornito tutti i dati personali che ci sono stati chiesti con una leggerezza che non avevamo riservato neanche all’Agenzia delle Entrate e abbiamo atteso che l’elegante schermata nera e bianca si aprisse sul futuro. Invece abbiamo fatto un salto indietro di mezzo secolo.
Il sistema della moda, polarizzato fra i due colossi LVMH e Kering, sta tentando ogni strada per occupare più spazi
Cinquant’anni secchi, e siamo sicure che se la prozia Ettorina che ci ha lasciato il suo scrap book di ritagli e collage di figurine e pezzi di stoffa fosse ancora viva direbbe cent’anni: nel giro di un secondo, ci siamo ritrovate in una versione tecnologica del gioco delle bambole di carta che praticavamo con entusiasmo alla fine degli anni Sessanta quando, temiamo di doverlo riconoscere, ce la cavavamo meglio con le forbicine a punta tonda e certe pupattole con i boccoli e gli occhioni azzurri in mutande di pizzo di quanto stessimo facendo, per un tempo che ci è parso infinito, cercando di vestire un avatar che vagamente ci assomigliava con un abito di Roksanda Ilincic e un paio di sandali di Gianvito Rossi. La app ci aveva infatti lanciato una sfida: “Il 5 novembre in Gran Bretagna significa fuochi di artificio e falò. Sei invitata all’evento annuale di Soho House. Vestiti adeguatamente per una serata fredda e chic”. Chissà se Guy Fawkes aveva pensato la stessa cosa mentre accatastava barili di polvere da sparo in quel lontano 1605: forse aveva pensato anche lui a chiudersi il collo in un’elegante gorgierina per non avere troppo l’aria del cospiratore. Docili e intente come negli anni in cui la mamma ci esortava a divertirci ma anche a ritagliare con perizia le piume del cappello da applicare alla bambolina di carta, ci siamo dunque messe all’opera, nel limite di tempo e di denaro concessi, per vestire la nostra immagine virtuale; a seconda del risultato, calcolato da un misterioso algoritmo dietro il quale speravamo ci fosse almeno il gusto di Giovanna Battaglia, avremmo aumentato la nostra “reputation” online.
Abbiamo guadagnato un sacco di punti e ricevuto una salva di applausi a mezzo flash, grazie infinite, ma i criteri di selezione e di “rilascio” definitivo dei capi sull’avatar ci sono sembrati ancora farraginosi, o forse siamo noi arrugginite oppure semplicemente fuori tempo massimo per questo genere di intrattenimento. Anagraficamente passé come le bamboline di carta che peraltro continuiamo a collezionare, nella versione adulta e dunque giustificabile dei libri illustrati a tiratura limitata realizzati dalle major hollywoodiane per promuovere la storia delle loro star. In compenso, qualcos’altro ci è sembrato funzionare benissimo. L’abito rosso a fiori di Roksanda. L’avevamo infatti cercato qualche settimana prima online (quasi nessuno vende i capi della geniale designer anglo-serba in Italia, bisogna rivolgersi al web): su Drest ci è stato proposto fra le opzioni di cui vestire il nostro alter ego, come l’icona di un nostro effettivo desiderio conservato in qualche recesso dell’infinita e magmatica rete. Noi ci eravamo dimenticate di quella ricerca: l’algoritmo di Google, forse, no. Fosse stata una selezione autonoma di Drest o la proiezione effettiva della nostra ricerca, la faccenda era comunque inquietante; in più l’effetto di similitudine, il lookalike dell’avatar vestito, non ci è parso riuscitissimo. Gli avatar di Second Life erano infinitamente più sofisticati ancora quindici anni fa, quando le grandi aziende della moda entrarono in massa nel mondo virtuale programmato da Philip Rosedale. Qualcuno vi aprì una boutique, sperando che l’interazione immaginaria si trasformasse in business reale. Il trasferimento dall’uno all’altro “mondo” non avvenne mai; in più, era difficile controllare l’accesso degli utenti agli spazi brandizzati e “profilarli”, cioè raccogliere informazioni attendibili.
Abbiamo atteso che l’elegante schermata nera e bianca si aprisse sul futuro. Invece abbiamo fatto un salto indietro di mezzo secolo
Nessuno della moda cita più Second Life da anni: qualcuno pensa addirittura che sia stato chiuso. In compenso, le app di videogioco vengono sottoscritte da un numero sempre maggiore di marchi della moda e del lusso. Gucci, che già lo scorso luglio ha debuttato sulla propria app con Gucci Arcade, una sezione dedicata ai videogame ispirata alle sale gioco degli anni Settanta e Ottanta, è stata fra le prime firmatarie del progetto Drest. Se voleste però consultare le prime dichiarazioni del nuovo ineffabile trio che sta per lanciare un’altra app di styling e shopping, il programmatore anglo-coreano Andy Ku, ex Silicon Valley, e due fra le fashion darling più in vista, Alexia Niedzielski ed Elizabeth von Guttman (la terza sarebbe Charlotte Casiraghi: insieme lanciarono il magazine a uscita irregolare Ever Manifesto qualche anno fa) scoprireste che tutti i grandi marchi hanno intenzione di provare l’esperienza e, tentativamente, hanno offerto anche a loro i propri capi da scannerizzare e proporre sulla nuova app, lanciata in Cina pochi giorni fa e al debutto in occidente per il 2020. Incredibilmente, e nonostante le due fondatrici svolgano la professione del comunicatore, la futura app porta un nome davvero difficile per contrastare la più svariata concorrenza: si chiama infatti Ada, ovvio e dichiarato omaggio alla figlia di Lord Byron a cui la storia deve l’algoritmo che ha permesso lo sviluppo del sistema binario, ma anche il nome più praticato e usato dalla rete. Si chiama Ada, infatti, l’app di welfare e autodiagnosi più usata in Europa (declinata in tedesco, inglese, portoghese e spagnolo, è usata da milioni di utenti all’anno; scalarne il posizionamento seo sarà impervio). Si chiama Ada il più importante premio mondiale riservato alle studentesse di tecnologia, oltre a un numero svariatissimo di riconoscimenti attribuiti a dentisti, designer eccetera. Come sia stato possibile identificare in Ada il nome adatto per una app che si prefigge di vendere a un dollaro l’uso dell’immagine di una camicia di Valentino non è dato sapere. Certo è che l’altro pomeriggio le signore dell’ufficio comunicazione di Giorgio Armani, un po’ sconcertate dopo che avevamo chiesto delucidazioni sulla comparsa di un paio di pantaloni baggy da uomo Armani su un avatar di prova di Ada, hanno chiesto qualche spiegazione a noi, non sapendo forse come orientarsi nei confronti di una app che, non ancora partita, si è fatta dedicare però sei pagine sull’ultimo numero del magazine del Financial Times How To Spend It, a dimostrazione che il business deve sembrare molto promettente.
Nessuno della moda cita più Second Life da anni: qualcuno pensa addirittura che sia stato chiuso. I casi più contemporanei
Il sistema della moda, polarizzato fra i due colossi LVMH e Kering e fra i grandi indipendenti come Armani, Prada o Dolce&Gabbana (avrete certamente notato la presenza del brand nell’entourage di Luigi Di Maio all’Expo di Shanghai qualche giorno fa, un anno dopo il disastro dello spot sul cannolo), sta infatti tentando ogni strada per occupare e attrarre quanti più spazi e interessi possibili: da una parte, è orientato nelle scelte strategiche dalle nuove richieste sulla sostenibilità e da un certo interesse dei giovanissimi per le tradizioni e per la storia del proprio paese che è anche all’origine del rigurgito nazionalista under 25 di cui si è avuta evidenza alle ultime elezioni europee. Dall’altra, deve necessariamente tenere conto dei mezzi attraverso i quali i giovani, e ormai anche gli adulti, si esprimono, e cioè i social media. Il nuovo social di riferimento dei teenager, la app di brevi video musicali Tik Tok, un business da 75 miliardi di dollari basato a Beijing, dove è nato nel 2014 con il nome di DouyIn, è infatti poco interessante per la moda, almeno al momento.
Il gaming prevede invece un’interazione lunga, e ha risvolti commerciali. Che anche la moda finisse per interessarsene era, insomma, abbastanza scontato. Non solo: come è già accaduto nella distribuzione, è possibile che i costi di accesso relativamente contenuti alle app e ai relativi siti di acquisto finiscano per favorire anche i nuovi marchi, i cosiddetti designer emergenti o “talent” come vengono definiti oggi (la differenza è sottile ma importante: per essere emergenti c’è un limite anagrafico, mentre si può essere dei talenti per tutta la vita e dunque tirare a campare o alternativamente avere successo senza essere inchiodati dal lessico).
iDunque, c’è una chance in più per tutti. Qualcuno, come Louis Vuitton, esagera un po’ e, dopo aver ideato un proprio videogioco, Endless Runner, sponsorizza il gioco online League of Legends creando non solo gli abiti per alcuni personaggi del gioco, ma anche il cofanetto da viaggio per contenere la Summoner’s Cup, il premio destinato ai campioni mondiali, come un tempo aveva creato il lettino da campo in baule per l’esploratore Pierre Savorgnan de Brazza. Di certo, per dedicarsi a queste app bisogna avere a disposizione lo stesso tempo di quando ritagliavamo le bamboline di carta. La responsabile comunicazione di uno dei brand coinvolti su Drest ce l’ha detto chiaramente: “Non ho ancora avuto tempo nemmeno per aprirlo”.
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