Addio Emanuel Ungaro, il sarto che applicava le leggi della moda
Lo stilista di origini pugliesi è morto a Parigi, dove era arrivato al seguito del padre, esule antifascista. Dei suoi abiti diceva: “La struttura di un vestito o di una giacca si ottiene rispettando una certa architettura, non c'è alcun miracolo”
Di Emanuel Ungaro, 86 anni, morto la scorsa notte nella sua casa di Parigi, da quindici anni ci era rimasto solo il profumo. In senso proprio. Le sue fragranze, prodotte a lungo dal gruppo Ferragamo che ne aveva posseduto anche il marchio di abbigliamento, erano incarnate da un nome in particolare, “Diva”, e da una boccetta che evocavano indissolubilmente i suoi anni di massimo splendore, gli Ottanta. Le ruches, i plissé, le stampe a colori forti e dai tratti decisi, i volumi ampi dei tessuti e l’assoluto riserbo personale.
La proprietà, invece, subiva, o per meglio dire tuttora subisce, l’andamento carsico delle società poco o fantasiosamente gestite in anni dove il focus strategico rappresenta lo spartiacque fra il successo planetario e l’insignificanza. L’ultimo stilista noto e abile che avesse guidato le sorti creative di Ungaro, Fausto Puglisi, aveva abbandonato l’impresa a marzo del 2017 per essere sostituito da Marco Colagrossi. Ne era seguito uno iato nelle sfilate e nelle collezioni. Poi, carsicamente, un nuovo annuncio: in una intervista al Corriere della Sera del marzo 2018, Roy Luwolt, cofondatore del marchio Malone Soulier, aveva annunciato di aver acquisito un terzo del capitale della Emanuel Ungaro affiancando Asim Abdullah, l’ingegnere americano di origine pakistana del fondo Aimz Acquisition che dal 2005 possedeva il controllo della società francese, rilevata da Ferragamo. Ne era seguita, ça va sans dire, una collezione di scarpe, Emanuel Ungaro Paris by Malone Souliers presentata a febbraio alla settimana della moda di Londra e ispirata ai vastissimi archivi di Emanuel Ungaro, il fondatore della maison.
E après? Boh. Anche fra colleghi, le informazioni si accavallano confuse. Un’azienda a un passo dal dimenticatoio o, per meglio dire, dai libri di moda. All’inizio di questo decennio, Emanuel Ungaro aveva progettato di ristrutturare un palazzo a Roma con la moglie, Laura Bernabei, una delle figlie di Ettore inarrivabile riferimento della storia della Rai, in gioventù collaboratrice di Valentino; poi, per ragioni sue, era rimasto a Parigi, dov’era arrivato ancora ragazzino al seguito del padre, sarto pugliese di Francavilla Fontana emigrato o, per meglio dire, esule antifascista.
Aveva appreso la magia del taglio lavorando a Barcellona da Balenciaga: “In questo mestiere esistono delle leggi canoniche e io le ho apprese proprio da Balenciaga”, raccontava: “Io mi limito ad osservarle: la struttura di un vestito o di una giacca si ottiene rispettando una certa architettura, non c'è alcun miracolo”. Aveva cucito fodere e imparato i segreti del taglio perfetto fino al 1965 quando, in piena epoca André Courrèges e moda spaziale, aveva aperto il suo atelier. All’inizio degli anni Ottanta, la boutique Emanuel Ungaro all’angolo di Avenue Montaigne, con la lucida insegna nera, era frequentata dal non plus ultra della bellezza e dell’eleganza femminile mondiale. Alle sue sfilate ci si accapigliava per entrare. Eppure, lui che tutti chiamavano monsieur Ungarò, con l’accento, non aveva mai dimenticato il dialetto della sua terra, i primi anni durissimi nel sud della Francia, quando veniva deriso e insultato dai compagni (“ci gridavano per strada di tornarcene da dove eravamo venuti: il mio orgoglio, mio e di mia sorella, era di essere bravissimi in francese”) e l’amore per le orecchiette, che sapeva fare a mano e sul serio, altro che polemiche e show off nei vicoli di Bari del capitano della lega Matteo Salvini. Lo vedemmo un’ultima volta a metà del decennio scorso, dietro le quinte di una sua sfilata. Era il marzo del 2004, la sua azienda era entrata a far parte del gruppo Ferragamo nel 1996. In passerella, a raccogliere gli applausi, apparve un giovanissimo Giambattista Valli.