L'anticenerentola della moda
Quella di Elisabetta Franchi è una storia da favola in cui la polvere si è trasformata in paillettes
La stilista Elisabetta Franchi, protagonista di questo ritratto, è “una che si è fatta da sola”, e lo dichiara immancabilmente con tutti gli addentellati e i gesti sapidi a mimare quanto e con quanta fatica. Benché la sua biografia, in uscita in questi giorni per Mondadori, si intitoli molto eloquentemente “Cenerentola, ti ho fottuto”, quella che leggerete nelle prossime righe è una storia dickensiana, per cui ci piace proporvela nella settimana del Natale come il “Canto”. Leggerla vi darà uno strumento in più contro i teorici della meritocrazia come legittimazione etica delle diseguaglianze (in parole povere: non ce la fai? E’ solo colpa tua) consentendovi di portare un po’ d’ossigeno al vecchio e traballante sistema capitalistico.
La sua biografia, in uscita in questi giorni per Mondadori, si intitola molto eloquentemente “Cenerentola, ti ho fottuto”. La storia di una bambina cresciuta in una casa dove riscaldamento e luce c’erano quando la madre riusciva a tenersi accanto un uomo
La storia di Elisabetta Franchi è quanto di più meritocratico abbiate sentito nell’ultimo anno, in special modo in Italia, e al contempo conserva tutti i codici della fiaba classica: bambini e animali che si salvano, case abbandonate che tornano agli antichi splendori, luce e calore. Una favola bellissima.
Allo scoccare dei cinquant’anni la nostra anti Cenerentola, che produce una moda molto amata dalle star televisive e fra le fan annovera l’eclettica moglie di Mauro Icardi, Wanda Nara, ha infatti annunciato che andrà in Borsa. Lo farà entro il prossimo aprile con due cavalieri bianchi dal cognome importante, e cioè Maurizio Borletti e Paolo De Spirt, che hanno insistito parecchio per scalare la sua torre, e che per garantirle (e garantirsi) il massimo dei risultati, le hanno consigliato lo sbarco sul segmento Aim di Borsa italiana attraverso la loro spac, cioè con il veicolo di investimento più sicuro e protetto. Dunque, sappiamo già oggi che il valore della Elisabetta Franchi spa sul mercato azionario, in cui la signora conserverà la maggioranza, sarà pari a 195 milioni di euro; per intenderci, di molto superiore a quello delle imprese di un paio di uomini molto assertivi che aspirano alla presidenza di Confindustria.
De Spirt, raggiunto a Parigi dove conserva una poltrona nel cda di Printemps che ha contribuito a rilanciare e a vendere, ci dice che Elisabetta Franchi è una “naturale”, cioè un’intuitiva, un’imprenditrice nata e di grande visione, e che conquistarne la fiducia non è stato facilissimo. Ci permettiamo di dubitare che se trentacinque anni fa lui e il suo sodale Borletti, venture capitalist nati entrambi nell’altissima borghesia milanese, colti ed eleganti, fossero mai transitati per uno dei mercati rionali di Bologna, avrebbero degnato di uno sguardo la Elisabetta Franchi dell’epoca, una ragazzina magra dagli occhi blu sgranati che vendeva biancheria intima dietro a un banco allestito personalmente alle quattro del mattino, soffiando sogni insieme al fiato per scaldarsi le mani. Qualche anno fa, quando il marchio era già cambiato rispetto a quello, molto anonimo, di Celyn B ma il fatturato attuale di 123 milioni di euro era ancora lontano (la signora cresce al ritmo del sei-dieci per cento all’anno, percentuali sconosciute alla maggior parte dei suoi competitor) la invitammo a parlare agli studenti in Sapienza. Si schermì per qualche mese; poi, complice la sua pr, Silvia Negri Firman, donna di polso cresciuta alla scuola durissima di Calvin Klein, finì per accettare. Arrivò senza un filo di trucco con i capelli annodati in una treccia, si scusò in partenza per eventuali strafalcioni sintattici, appoggiò sulla cattedra una bambolona di pezza con i capelli neri come i suoi (è diventata bionda con gli anni e con gli agi) e raccontò la storia di una bambina cresciuta in una casa dove riscaldamento e luce c’erano quando la madre riusciva a tenersi accanto un uomo, con parecchi fratellastri a cui badare, e in cui l’unico patrigno durato più degli altri rappresentava un modello di comprensione e di amore fino a quando si attaccava alla bottiglia e allora bisognava infilare la porta il più in fretta possibile, perché gli usciva di tasca il coltello. In quelle occasioni, lei e i fratellini trascorrevano le notti all’addiaccio o pigiati nell’utilitaria, in mezzo alla strada, senza riuscire a prendere sonno, lei sapendo già che la mattina dopo sarebbe dovuta andare a scuola e il pomeriggio badare alla casa mentre quella mamma “che faceva molto affidamento sulla propria bellezza” cercava una soluzione per venirne fuori, forse. Non era neanche Dickens, qui eravamo un miglio oltre Oliver Twist. Era direttamente l’Ammazzatoio di Zola con tutti i Macquart. Nell’Aula Magna intitolata a Giorgio Levi della Vida, il grande studioso ebreo dell’Islam che si rifiutò di prestare giuramento al regime fascista e fu costretto a emigrare, non volava una mosca. Tanti avevano gli occhi lucidi. Elisabetta Franchi raccontò del primo lavoro remunerato in un bar, adolescente; evocò il mercato gelido, poi il salto a commessa in un negozio, quindi l’incontro con il primo marito, Sabatino Cennamo, piccolo imprenditore che era già sposato e questo fu l’unico punto che, se ben ricordiamo, tralasciò. Arrivarono gli aneddoti sul debutto nel pronto moda, la nascita della prima figlia, Ginevra detta Gingi a cui adesso è intitolata la holding, la morte prematura del marito per un tumore, la ripresa da sola, vedova trentenne con bimba a carico e con i prestiti da onorare, i Natali in ufficio e in magazzino, i viaggi col campionario in valigia per piazzare i capi dell’ultimo minuto nei negozi multimarca; poi la prima boutique, e la seconda e la terza (adesso sono ottantaquattro, con 1.100 multimarca riforniti) e la conquista di un posto al sole sempre più luminoso, fra l’ostilità dei colleghi e la tolleranza snobistica della Camera della Moda che, se vogliamo, non si è ancora dissolta, benché la produzione di Elisabetta Franchi sia quasi interamente made in Italy e sulle fonti di ispirazione siano tanti, di certo non solo i suoi designer, a guardarsi attorno prima di mettere la matita sul foglio. Chiuse l’intervento sul primo fidanzatino che è diventato il secondo marito, sulla nascita del secondo figlio, Leone, sulle associazioni che sostiene, facendo proselitismo, e sulla svolta animal free delle sue collezioni – niente pelliccia, meno pelle possibile – perché nella sua famiglia che non avrebbe mai definito disfunzionale perché nessuno le aveva mai spiegato che cosa fosse, si era sempre trovato il modo per sfamare gli animali abbandonati. Nel frattempo, la bambola osservava l’audience, copia conforme di quella che da bambina l’oratrice vestiva di stracci e che ora veniva venduta in migliaia di copie nei suoi negozi, provvista di un ricco guardaroba. Commosse, ma anche un filo insospettite da quella storia fin troppo verista e da tutta quella simbologia, conclusa la testimonianza in un tripudio di battimani e di richieste di selfie che non si sono più ripetute con quella spontaneità e quel calore, neanche per direttori creativi di levatura mondiale, ci informammo presso amiche e colleghe bolognesi che avevano lavorato come manager in quel mercatone del pronto moda che è il Centergross, dove Elisabetta e Sabatino avevano debuttato con i progetti di lei e i magri risparmi di lui, e scoprimmo che la signora Franchi ci era andata leggera. La realtà era ancora più drammatica. Per questo, e non siamo i soli, approviamo al buio, una collezione dopo l’altra, i suoi abiti da sirena e le tute sexy, le sue t-shirt con le frange di metallo altezza seno, il suo amore sfrenato per i luccichii e per i tessuti setosi. Per questo, intuiamo anche i motivi per i quali i suoi account Instagram trabocchino di commenti affettuosi e la sua moda piaccia tanto: perché piace, innanzitutto, lei. Scorrete l’account aziendale, con i suoi quasi due milioni di follower, e troverete solo manifestazioni di entusiasmo per quei tagli avvitati e per tutte quelle paillettes: la moda di Elisabetta Franchi permette alle donne di non lasciare mai il guardaroba di Barbie in modo definitivo; la sua storia consente invece di avvicinarsi al sogno di affermazione professionale femminile che quella bambola, per prima, ha postulato, sessant’anni fa. “Se vuoi puoi” è il motto della stilista, stampato su migliaia di t-shirt e che, rileggetelo, vi ricorderà molto da vicino quello di Walt Disney, un’altra figura di grande successo cresciuta in una famiglia dove le mani venivano alzate con facilità: “Se puoi sognarlo puoi farlo”. Elisabetta Franchi, con la casetta sull’albero che si è costruita nel casale “di mille metri quadrati” ristrutturato alle porte di Bologna, non ha affatto “fottuto Cenerentola”. Piuttosto, ne ha sviluppato il sogno di riscatto fino all’ultimo mucchietto di polvere del camino, trasformandolo in paillettes. Dunque la gente, in un modo sconosciuto alle Miuccia Prada e alle Consuelo Castiglioni, di cui pure sarebbe difficile negare l’impegno civile e culturale, alla prima soprattutto, a “Betty Blue” si sente vicina. Le si rivolgono definendola una “leonessa”, tributandole gli onori del capo, o del capotribù. Gli amici bolognesi, senza troppi complimenti, la chiamano “la bestia”. Di certo, nell’anno che va chiudendosi con la nomina di Marta Cartabia alla presidenza della Corte Costituzionale e in cui le lettrici del magazine femminile più sofisticato eleggono la pallavolista Paola Egonu, nera, sostenitrice dei diritti lgbt, a donna dell’anno, Elisabetta Franchi rappresenta un ulteriore unicum. Nel mondo pur molto aperto e trasversale della moda, dove le nozioni di inclusione e di diversità vengono ormai incartate nella velina insieme con le scarpe a mille euro, Elisabetta Franchi rappresenta un’eccezione. Pochi possono vantare le origini alto borghesi di Roberto Capucci o quelle nobili e rivoluzionarie di Marta Ferri, ma per trovare un caso similare al suo, cioè di uno stilista ma soprattutto di un imprenditore che abbia avuto successo internazionale partendo da un contesto sociale degradato, bisogna evocare Lee Alexander McQueen, e si sa come è andata a finire. Il solo italiano lontanamente apparentabile a Elisabetta Franchi è Riccardo Tisci, il poeta dello stile gotico-rock che ha risollevato le sorti di Givenchy e che attualmente guida la creatività di Burberry, unico figlio maschio fra otto sorelle con una madre vedova; ma, nonostante le ristrettezze, Riccardo è riuscito a studiare alla Central St Martin’s di Londra e ha sviluppato i propri orizzonti in un contesto familiare amoroso e compatto. Ma, soprattutto, non si è mai messo in gioco in prima persona, rischiando capitali e fondando la propria azienda. Nei due biopic che le sono stati dedicati nell’ultimo anno e che sono coincisi con i venti dalla fondazione dell’azienda, “Essere Elisabetta” ancora rintracciabile su Real Time e più di recente una puntata del programma Mediaset “Pensa in grande”, Elisabetta Franchi ha il coraggio di mostrarsi mentre la tata dei bambini riprende lei e il marito sugli usi sociali, e di scherzarci garbatamente sopra.
Il racconto più meritocratico che abbiate sentito nell’ultimo anno e che al contempo conserva tutti i codici della fiaba classica. Sul mercato azionario il valore della Elisabetta Franchi spa, in cui la signora conserverà la maggioranza, sarà pari a 195 milioni di euro
L’orgoglio della sua esistenza, la misura del suo successo, dice, sono i tre frigoriferi pieni e il lusso di girare per casa in canottiera in pieno inverno. Dietro le anti Cenerentola ci sono le Rossella O’Hara che si rialzano dalla terra a cui hanno strappato quattro radici e giurano in campo lungo di non voler mai più soffrire la fame, a nessuno costo. Il mondo si sarà pure evoluto ai social network e all’ecommerce, ma il cibo, la sua abbondanza e la sua qualità, continua a essere un tema molto sentito lungo la strada dell’affermazione personale. In casa di Elisabetta Franchi pare misuri anche i rapporti famigliari, che lei difende in modo geloso ed esclusivo. Alla data in cui scriviamo, l’ultimo post del marito di Elisabetta, Alan Scarpellini, quasi 80mila follower, segnala desolato e un po’ divertito che non sa a che “ora si cenerà stasera”. Lui, infatti, che di sé posta solo immagini con i bambini o con lei e che nei due documentari interviene solo per raccontare come si siano conosciuti ed essere ripreso dalla moglie, fuori campo, che precisa e puntualizza, l’aspetta ogni sera a casa. Non è ben chiaro quale attività svolga, in realtà dichiara non saperlo anche la pr e nessuno pare ci badi granché. Di sicuro il signor Scarpellini, che assomiglia vagamente ad Alec Baldwin, di Elisabetta Franchi è il punto fermo, il focolare, la forza. La accoglie ogni sera, aspettandola al ritorno dall’ufficio per condividerne ansie e timori, i successi e le speranze. Si sono salvati a vicenda, il capofamiglia è in tutta evidenza lei. E anche questo ha il sapore di una favola. Fin troppo moderna per la società italiana, in effetti.
Politicamente corretto e panettone