Jean Paul Gaultier, ragazzaccio a vita
Ultimi sberleffi in passerella, lo stilista si ritira: “Ma lo spirito non è cambiato”. Incontro a Parigi
Quanto è difficile restare un enfant terrible per tutta la vita? Che qualità devi possedere perché il mondo continui a definirti tale, un anno dopo l’altro, aspettando i tuoi colpi di genio e di teatro senza mai prendere in considerazione che sei entrato nella terza età, che non devi più ossigenarti i capelli perché sono ormai bianchi naturali, che questa è stata la tua ultima sfilata couture perché da adesso in poi farai qualche collaborazione, “un nuovo projet secreto”, detto metà in italiano e metà in francese, ma ti dedicherai soprattutto allo spettacolo, la prima forma d’arte che ti abbia sedotto? Strette, spintonate fra amici, parenti, star, semplici curiosi che verranno allontanati dal servizio di sicurezza, nel budello che porta al palcoscenico del Thèatre du Chatelet dove si è appena conclusa la sfilata celebrativa dei cinquant’anni di attività di Jean Paul Gaultier – oltre duecento incredibili capi ricreati mettendo mano al suo archivio e indossati dal non plus ultra del fashion star system mondiale, compresi Amanda Lear e Boy George che, en passant, cantano – in attesa di porgli questa domanda riannodiamo il filo dei venticinque anni buoni da quando assistemmo per la prima volta a un suo show, e non era possibile definirli altrimenti perché all’epoca quasi tutti gli altri facevano sfilare il campionario e c’era da buttarsi a terra per la noia. Gaultier, eterno enfant terrible, metteva le gonne a godet e le trasparenze a certi tipi muscolari del genere che sarebbe piaciuto a Genet, come il maschione di Querelle de Brest per intenderci, li truccava anche, tiè, e li definiva “uomini facili” senza tema di offenderli; nel frattempo, rendeva le donne incredibilmente forti o, come si direbbe adesso, empowered, emancipate, pur strizzandole in bustini e issandole su tacchi impossibili, fetish da morire e per nulla maschilisti. Trent’anni prima di chiunque altro, e certamente prima del pur abilissimo Alessandro Michele di Gucci, Gaultier ha detto che “gli abiti non hanno sesso”, prove storico-settecentesche alla mano, e tacchi, e busti, e giarrettiere ambosessi, com’è stato a lungo.
Mercoledì sera ha ribadito tutto questo nel quadro intitolato “Pas mon genre”, non è il mio genere, la famosa battuta di Charles Swann su Odette de Crécy, che ha rivisitato e descritto sul carnet di sfilata, grazioso retaggio dei tempi andati, come “asimmetria di tagli e di generi, su classici couture misti”. Il menu prevedeva altre delizie sartoriali e lessicali come “Satyre icons”, “decadenza di protesi couture su classici rivisitati” (sì, le protesi a cono rese immortali da Madonna nel “Blonde ambition” tour ma che Gaultier fece indossare per la prima volta al suo orsetto di peluche dopo essere stato folgorato dal reggiseno della mamma); “Live and let dye” (“vivi e lascia stingere”) “turbolenza di jeans upcycled in stile couture: i tessuti di sicurezza si trovano davanti, al centro e sulla coda dell’apparecchio” e soprattutto “Ca peut servir”, il cuore di questa prima collezione di couture “upcycled”, come si definisce adesso, col superlativo “up”, il riassemblaggio di pezzi vintage. “Niente si perde, tutto si trasforma nell’alta moda: baby doll, ricami filet, guanti, ventagli cinesi, cravatte”. Ed ecco allora le borse di perline anni Ottanta trasformate in gonne; una serie di foulard di Hermès, la griffe di cui è stato direttore creativo dal 2004 al 2010, intrecciati con il cuoio in forme nuove; e ancora, un abito di palloncini riannodati come crinolina, e infine una materia del tutto incomprensibile, forse spugna, modellata in forma di roccia “ma sullo stile del frottage di Max Ernst”.
Il mix, il métissage, sostantivo valevole tanto nell’antropologia quanto nella moda, è il suo mantra, il credo che gli ha permesso di togliere al sistema della moda la rigidità in cui tende a cristallizzarsi a dispetto della propria natura. “Nella vita”, spiega, “bisogna mescolare, soprattutto quello che non si direbbe mai possa stare insieme: tessuti, gente, classi sociali. E saperne anche ridere”. C’è in giro troppa serietà, troppa pesantezza; in buona sostanza, troppa correttezza politica. In cinquant’anni di carriera, dal primo incontro appena diciottenne con Pierre Cardin “che mi ha insegnato il concetto della disciplina ma anche della libertà assoluta, nello stile come nella gestione della propria azienda”, Gaultier ha rotto qualunque schema e introdotto tutti gli argomenti di cui adesso si dibatte con rabbia e acredine, e per tutti intendiamo il gender, la diversità, la bellezza purchessia e soprattutto fuori taglia, facendolo con gioia. Dalle sue sfilate si usciva e si esce tuttora sentendosi leggeri e perfino più intelligenti: miracolo di quell’attitudine che stiamo perdendo in ogni campo e che si chiama ironia.
Non c’è mai stata tanta discriminazione verso il cosiddetto diverso come da quando non si fa altro che parlarne, ci disse qualche anno fa Quirino Conti e ci ribadì Piero Tosi, che ricordava spesso le feste di Luchino Visconti con gli aspiranti attori, amanti o anche qualsiasi cosa in attesa di essere ammessi al cospetto del magnifico regista in fila sulle scale, e nessuno che alzasse un sopracciglio, altro che suonare ai citofoni a caso. Che cosa è rimasto, oggi, di quegli anni non ignari e non innocenti, ma di certo più brillanti e innovatori che furono gli Ottanta e i primi Novanta? Che cosa è diventata la moda, quel business nelle mani delle multinazionali da cui Gaultier si è dapprima ritirato per la produzione pret-à-porter, ancora nel 2014, denunciandone il surménage, i “ritmi impossibili per alimentare la creatività”, e che ora abbandona anche nella couture, ultimo tempio apparente dell’eleganza di pensiero e di stile? Poco. Giusto la voglia di recuperare il bello e il buono che c’è e di riattualizzarlo, di riviverlo in forma nuova. Mentre le modelle del cuore di ieri e di oggi, Coco Rocha e Yasmin Le Bon e Gigi Hadid lo abbracciano prima di andarsene e Dita von Teese lo aspetta seduta composta in un abito viola che ne sottolinea il candore lunare, Gaultier spiega: “Ho recuperato tutte le mie vecchie collezioni, tutto quello che ho comprato nei mercati delle pulci, tagliato, rifatto, ricostruito. Dal nuovo fiammante al vecchio fiammante: ecco la bellezza della couture, e delle cose che valgono: si possono riciclare, trasformare, adattare in qualcosa di nuovo. Quello che ho fatto agli inizi senza soldi, lo rifaccio oggi usando il mio patrimonio e con lo stesso divertimento. Penso che la moda debba cambiare: nel mondo ci sono troppi vestiti, e troppi vestiti che non servono a niente e che non valgono niente. C’è troppo di tutto in questa nostra epoca”, sorride nella sua maglietta a righe e nella tuta operaia (autentica), un filo di enbonpoint balzacchiano, di pancetta, visibile sotto la zip. Lo disturbano le infinite scritte in sovraimpressione sulle reti all news, per esempio, tutte quelle informazioni che ingombrano il cervello e distraggono. Non si crederebbe che abbia animato per molte stagioni la trasmissione televisiva Eurotrash con Antoine de Caulnes e che abbia condotto l’Eurovisione, ma la verità è che, sebbene la pop culture gli piaccia da morire e vi abbia navigato in mezzo per decenni, sfruttandone correnti e maree, lo disturba la ripetitività senza scopo, il tutto uguale, il tutto banale, l’omologazione. Vuole continuare a guardare il mondo con occhi nuovi, e sente di non poterlo più fare attraverso la moda trasformata in lusso di massa.
“In senso stretto, anagrafico, non mi sento naturalmente più un enfant terrible perché quest’anno, il 24 di aprile, compirò sessantotto anni, ho i capelli bianchi, ma lo spirito non è cambiato, come l’envie di fare le cose”, ci dice. “La mia couture non è finita, proseguirà con una nuova impostazione, un nuovo concept che rivelerò fra qualche tempo e che credo sia più giusto per questo momento, questa epoca. Cinquant’anni sono tanti, nel mio mestiere. Vedo attorno tanti giovani che sono bravissimi et bien, (sta a loro, nda). Io voglio tornare alle origini della mia carriera, al motivo per cui l’ho scelta, e oggi ho avuto la prova. Così tanti amici sono venuti per questa sfilata, così tanti si sono prestati a interpretare il ruolo di modelle. E questo mi ha dato e mi dà nuova ispirazione”.
Sta per partire alla volta della Russia con il suo spettacolo, “Le fashion freak show”, autobiografia teatrale di danza, musica, moda e di tutte le discipline in cui ha declinato la sua esistenza fino a oggi, lui che considera Federico Fellini il più grande narratore della vita umana nel cinema e la sfilata ecclesiastica di “Roma” la più esatta rappresentazione di quell’intreccio di ambizione e afflato di matrice religiosa che è il culto dello stilista. Stilista dell’arte totale, a nove anni ne comprese il potere nel suo primo disegno di “una vedette con le calze a rete e le piume in testa” dopo aver visto di nascosto in televisione uno spettacolo delle Folies Bergères: “La maestra mi bacchettò sulle mani, portandomi di aula in aula per umiliarmi. E invece, quel gesto fu la mia salvezza, perché i bulli che mi tormentavano iniziarono ad ammirarmi e a chiedermi sempre nuovi disegni”. All’improvviso, la “bambina mancata” che tutti deridevano perché non giocava a calcio, era diventato un ragazzino popolare, ricercato. “Avevo trovato il modo di suscitare il sorriso e di essere amato, che è il vero motivo per cui ho fatto questo mestiere”.
Mentre lentamente veniamo sospinte qua e là nel backstage fra una folla in cui si mescolano Mika, Arielle Dombasle, Carla Bruni, Simon Le Bon, una giunonica Béatrice Dalle e tutta la vecchia e nuova guardia colta della moda francese, da Christian Lacroix a Nicolas Ghesquière, ci sovviene di quella volta, era forse il 2011, in cui Gaultier disse in un documentario alla sua modella e musa di riferimento della fine anni Settanta, Farida Khelfa, che quando finalmente gli uomini fossero stati pagati nella moda come le donne, sarebbe stato il segno di un vero cambiamento nella dinamica dei ruoli e del raggiungimento della parità, mentre le labbra gli si increspavano in una risata. Essere enfant terrible vuol dire anche questo, anzi soprattutto questo: ribaltare le prospettive. Modellare parti del corpo proibite, certo, ma innanzitutto dare nuova forma ai pensieri, liberandoli dalle spire mortifere dell’ovvietà.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio