Miuccia Prada e Raf Simons uniscono le forze, analisi di una sfida
Lo stilista belga entra a far parte del marchio italiano in qualità di co-direttore creativo. Cultura e pensiero creativo contro il merchandising forsennato dei colossi
E’ bellissimo, soprattutto per chi come noi crede ancora nel potere socio-culturale della moda, che Miuccia Prada e Raf Simons non solo uniscano le forze, come avevamo annunciato una settimana fa sull’onda di molte settimane di indiscrezioni senza ricevere smentite, ma che lo facciano dichiaratamente in nome di questo ideale, come reazione a un mondo che, dicono, inizia a favorire troppo i risultati commerciali oltre il pensiero atto a sostenerli, e talvolta anche oltre la direzione creativa stessa. Poi, sappiamo bene tutti che al momento opportuno interverrà il patron Patrizio Bertelli a valutare costi-benefici di ogni singolo pezzo, e la direzione merchandising del gruppo a dire la sua, ma è davvero un segnale importante che due menti di prim’ordine, straordinariamente simili nonostante il percorso umano e sociale diversissimo (Miuccia Prada, 71 anni, è figlia dell’alta borghesia milanese, è laureata in Scienze Politiche alla Statale e ha “fatto il Sessantotto”, come si dice in gergo; Raf Simons, 53enne belga, è figlio di un metronotte e ha ottenuto un diploma in design a Genk), abbiano scelto di compiere insieme un percorso che entrambi ritengono fondamentale, ora che il sistema della moda sta andando in modo molto evidente verso “un business del tutto privo di creatività”.
Il gruppo Prada non è nuovo a tentativi in questa direzione industrial-illuminata, per così dire: ci provò ancora nei primi anni Duemila, acquisendo Jil Sander, Helmut Lang, CarShoe e Church’s nel chiaro obiettivo di creare un polo del lusso understated, intellettuale, allergico al bling bling, come peraltro era stato evidente fin dal lancio del primo zainetto Prada in nylon nero alla fine degli Anni Ottanta, quando tutti vestivano in fucsia, portavano giacche con le spalle da rugbista e i capelli gonfi e laccati. Per molteplici ragioni, certamente legate alle opportunità di mercato, alla crisi dei subprime del 2008 e alla crescita arrembante di Lvmh e di Kering, ma anche alla vis energica di Bertelli (nel settore ancora si favoleggia dei suoi epici scontri con la pur gelida amburghese Jil Sander), le cose non andarono come previsto, e a poco a poco il gruppo cedette tutte le acquisizioni, concentrandosi sui marchi originari Prada e Miu Miu.
I rapporti con Raf Simons, che era stato chiamato a sostituire la stilista tedesca a capo del marchio e, pur da stilista specializzato nella moda maschile, lo aveva trasformato in un must see per la stampa e in un must have per le donne più sofisticate fino al 2012, cioè sei anni dopo l’uscita del gruppo Prada, sono però rimasti buoni. Lui e Miuccia Prada si sono ritrovati dichiaratamente nell’ultimo anno, incontrandosi e confrontandosi più e più volte. Entrambi hanno affrontato molte vicissitudini: Raf Simons, che pure continua a gestire il marchio eponimo e in cui il gruppo Prada non acquisirà quote, ha lasciato nel 2018 in polemica la direzione creativa di Calvin Klein, ultima carica di primo piano, dopo un tentativo di rivoluzionare lo sportswear andato fallito. I più giovani di questo settore ricordano a stento i suoi tre anni di direzione creativa della linea donna di Dior, fra il 2012 e il 2015, la sua rilettura tecno-avanguardista delle forme ellittiche e dei volumi a campana cari al fondatore, applauditi dalla stampa quanto snobbati dal mercato che, invece, da cinque anni idolatra Maria Grazia Chiuri, i suoi abiti di chiara lettura e le sue shopper divertenti.
Il lavoro di Miuccia Prada, la signora che ha riscritto i codici della bellezza, esplorando i confini del brutto e ribaltandone il senso, ha avuto andamento e accoglienza altalenanti negli ultimi cinque anni; questi risultati contrastanti, e di critica e di mercato, dovuti in parte alla scomparsa di Manuela Pavesi, amica e consulente strettissima, in parte alla necessità di dover rispondere alle richieste di un mercato globale sedotto dall’estetica fluida introdotta da Gucci, sono andati migliorando nelle ultime due stagioni, in particolare nell’ultima collezione, presentata pochi giorni fa: potente, interessante e molto “in tune”, cioè in linea con i mutamenti sociali e la sensibilità del momento. Grazie all’impegno nella cultura, dall’arte al cinema, e nonostante qualche incidente di percorso con il surreale maccartismo politicamente corretto che ormai domina gli Stati Uniti, Prada non ha perso un grammo del proprio ascendente presso il pubblico mondiale. Ma è ovvio che, con un giro d’affari 2018 di 3,14 miliardi di euro nel 2018, il gruppo Prada abbia dimensioni relativamente contenute rispetto a quelle dei tre colossi Lvmh, Kering e Richemont (rispettivamente 46,8 miliardi, 13,66 e oltre 10). Questa mossa, pur rientrando apparentemente nell’ambito della tendenza, molto forte al momento, delle collaborazioni creative, se ne distacca sia per la formula, cioè una partnership destinata a durare e che prenderà avvio con la collazione del prossimo settembre, sia per gli obiettivi, elevatissimi per entrambi. “Cambiano i tempi, e la creatività deve accompagnare questo cambiamento. La sinergia di questa partnership ha ampie ramificazioni”, dichiarano: “E’ una reazione ai tempi in cui viviamo, un’epoca di nuove possibilità, che consentono di assumere un punto di vista e un approccio diversi rispetto alle metodologie consolidate. Si può anche interpretare come il primo passo in direzione di più vasti ambiti di interazione: l’inizio di uno scambio e di una collaborazione liberi, che si interrogano sulle convenzioni creative”.
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