L'eredita' di Piero Tosi
I bozzetti salvati dall’incendio e tutto quello che possiamo ancora imparare dal più grande costumista del cinema
Nella celebrazione dell’eredità nascosta di Piero Tosi che faremo nelle prossime righe, comprensiva di aneddoti e disegni inediti, c’è nulla di pre-ordinato; giusto una telefonata di uno dei suoi allievi più famosi, Alessandro Lai, di qualche giorno fa: “Ricordi che il 10 aprile sarebbe stato il suo compleanno? Pensa, proprio in queste ore ho ritrovato un fascio di disegni inediti. Credevo fossero andati persi nell’incendio di casa, e invece, miracolo, si sono salvati. E’ un segno, che dici?”. Dico manda. Pochi minuti dopo, su whatsapp, compare il ritratto a china di Rina de Liguoro nel ruolo della principessa Maria Stella Corbara di Salina nel Gattopardo di Luchino Visconti: indossa l’abito per il ballo dai Monteleone, acconciatura compresa e perfettamente descritta per chi avrebbe dovuto realizzarla. Arriva un secondo disegno, ed ecco, riconoscibilissimo perché Tosi aveva studiato con Ottone Rosai ed era anche un gran pittore, Pierre Clémenti, il Francesco Paolo di Salina che irride l’orrido frac di Calogero Sedara con le famose code “in muta supplica”, vestito per il viaggio a Donnafugata da cui prendono le mosse tutti gli eventi del romanzo; il campione di tessuto ceruleo scelto per la camicia è ancora appuntato al disegno. Arrivano ancora appunti per la Medea di Pier Paolo Pasolini: la china è un po’ sbiadita, dopotutto sono trascorsi cinquant’anni, ma le note all’assistente si riescono, almeno parzialmente, a leggere. “Tuniche Argonauti: pelle bianca, toppe con dentro paglia”. La disposizione dei chiodi sulle corone del re e della regina della Colchide; i dettagli delle corazze da far consegnare al fabbro.
La differenza fra Tosi e decine di altri costumisti non è mai, o per meglio dire non è solo, nella forma, nel taglio dell’abito. E’ nel dettaglio
La differenza fra Tosi e decine di altri costumisti anche famosissimi non è mai, o per meglio dire non è solo, nella forma, nel taglio dell’abito. E’ nel dettaglio. Una manica, una baschina, perfino il numero delle passamanerie applicate alle tiracche della manica di un costume cinquecentesco per una rappresentazione teatrale, cioè per un costume che il pubblico avrebbe visto a distanza di cinquanta metri e magari distratto dalle fattezze di Alain Delon (il caso è reale, e il costume in questione una ripresa anni Novanta della celebre messinscena del 1961 di “Peccato che sia una sgualdrina” di John Ford, con la regia di Visconti e Romy Schneider nei panni di Annabella: Lai ha conservato a lungo quella tiracca sbagliata e che Tosi respinse, come memento). Il costume come teoria del particolare, come studio storico minuzioso ma pronto a essere stravolto e reso moderno da un elemento estemporaneo, in una visione sincretica e prospettica delle arti. A Piero Tosi, che ha cambiato la storia del costume cinematografico mondiale, non piaceva lavorare, e non era un vezzo: a ogni film stava male, malissimo, sul serio. Mal di pancia, incubi, un dramma dopo l’altro. L’abbiamo visto prenderla troppo a cuore sul set di un catalogo, possiamo credere a chi ci racconta delle notti insonni per un tessuto e dei mal di testa psicosomatici, del genere che colpiva anche Yves Saint Laurent (i due, ça va sans dire, si stimavano reciprocamente moltissimo). Poi, Tosi era nato a Sesto Fiorentino e non nella Orano della Peste di Camus, e dunque tornava con i piedi per terra, ma raramente si riteneva soddisfatto del proprio lavoro. Alberto Spiazzi, l’autore dei costumi de “Il Tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli e suo ultimo assistente, racconta ancora con stupore i retroscena della leggendaria messinscena del don Carlo di Verdi per il bicentenario della Fenice, nel 1991, con la regia di Mauro Bolognini, le scene di Mario Ceroli e i costumi di Tosi (i bozzetti originali che pubblichiamo sono suoi, dono del maestro), una meraviglia nei colori degli Asburgo, il giallo imperiale e il nero, decorati a mano con i preziosi stampi di Maria Gallenga, l’antesignana del made in Italy di ispirazione storica: “Eravamo sulle scale della Fenice prima del debutto e gli dissi: sarai soddisfatto del tuo lavoro. Mi guardò con una smorfia di dolore: Se mi fosse piaciuto il mio lavoro, mi disse, sarei a Hollywood ricco e sereno. E invece”. E invece il suo lavoro ogni tanto gli piaceva, e in quelle rare occasioni lo dimostrava con l’esuberanza cinetica di un bambino, producendosi in un fuoco di artificio di aneddoti che sono diventati leggenda e modello per un’intera generazione (quando trovate un costumista che osserva rapito una balza citando Flaubert e la Parigi del 1856 sappiate che sta scimmiottando Tosi, di solito senza aver letto e studiato la metà).
Il lascito vero, che spunta ogni giorno accompagnato da un racconto, sono i bozzetti raccolti dagli studenti o dalle sarte
E’ morto benestante nonostante non si fosse mai privato della gioia del buon vivere, dei begli uomini, e avesse detto più volte di no che di sì: l’ultima, clamorosa, a Stanley Kubrick che lo voleva per Barry Lyndon. Pur di allontanare lo spettro dei mesi di riprese Oltremanica chiese un compenso talmente alto che il regista, dopo aver risposto qualcosa di molto dignitoso tipo “tutti devono essere felici di lavorare al massimo con me per il minimo” si rivolse, su discreto suggerimento, alla giovane Milena Canonero, facendone la fortuna. A Hollywood Tosi non andò mai perché odiava salire su un aereo; quando, dopo una sequela di assenze a dispetto delle cinque nomination, gli diedero l’Oscar alla carriera e dunque non avrebbe più potuto sottrarsi, mandò a ritirarlo Claudia Cardinale, scusandosi moltissimo con lei per il disturbo: “Non fosse stata una vera amica, non avrei avuto il coraggio di chiedere un favore simile”.
Tosi è morto lo scorso 10 agosto, in un’alba non troppo calda ma molto silenziosa, lasciando i tanti che pure ormai erano preparati attoniti. Stava male da tempo, ma ogni volta e per la generale letizia si riprendeva: “Come sta Pierino?”, “meglio, respira bene”. Venne celebrato un funerale frettoloso, erano tutti in vacanza e talvolta molto lontano; nei mesi successivi fu organizzata una sorta di celebrazione a beneficio dei finti orfani. Siamo contenti che non abbia dovuto incrociare sulla propria strada il coronavirus, perché ne sarebbe stata la vittima ideale. Viveva in un piccolo appartamento in zona Campo Marzio, un trionfo di understatement in grigio perla e accenni neoclassici che è stato legato ai due fratelli e alla nipote Valentina. Del resto dell’eredità sono stati beneficiari i suoi badanti, amorevoli e devoti, e alcuni dei costumisti che più gli erano stati vicino o che, forse, più gli erano affini per carattere, cioè golosi di vita senza darlo a parere, con i ritratti degli amanti alle pareti e nessun rimpianto se non per quel club di soli maschi che fino a qualche tempo fa andava avanti tranquillo dai tempi di Socrate, senza bisogno di piume, di carri e di rivendicazioni: l’école di Arbasino, insomma. Amava le donne con il rispetto e la curiosità che si nutre per la diversità interessante, cioè senza tentare di appropriarsene, di sostituirla o di annullarla, e come logico ne era profondamente riamato. Era, dunque, il costumista ideale per lavorare attorno al personaggio di Albin del Vizietto, dove infatti diede fondo alla propria non comune riserva di ironia, creando sì una macchietta, ma senza ombra di volgarità: un performer solare, divertito, consapevole. “Per crearlo si era ispirato a un visagista che aveva il salone dalle parti di piazza di Spagna”, racconta Spiazzi, che ne conserva molti disegni e che lo affiancò nella terzo film della serie:“Un omone che indossava combinaison color glicine o bianco, tacchi, cappelli a larga tesa e portava sempre con sé un barboncino in braccio, sfidando i lazzi dei camionisti”. Ci spiace non aver potuto assistere alle riprese, che si tennero a Cinecittà, perché pare che gli strilletti acuti di Michel Serrault appeso ai cavi di metallo in costume da ape regina fossero esilaranti: “C’era da sbellicarsi”. Anni più leggeri.
Non gli piaceva lavorare, e non era un vezzo: a ogni film stava male, malissimo, sul serio. Mal di pancia, incubi, un dramma dopo l’altro
L’eredità dei beni mobili e immobili di Piero Tosi è ben poca cosa rispetto alla grandiosità di quella, usiamo un termine desueto ma forse di prossimo ritorno, morale. La scuola della professione, il passaggio del testimone. Scorrere l’elenco dei suoi allievi e dei suoi assistenti equivale a raccontare la storia del costume cinematografico e teatrale di oggi: Massimo Cantini Parrini, autore di riferimento di Matteo Garrone; Carlo Poggioli, l’artista che veste Jude Law “New Pope” ma anche il presidente dell’associazione dei costumisti e degli scenografi italiani; Gabriella Pescucci, premio Oscar per l’“Età dell’innocenza” (e diverse nomination) e ideatrice dei costumi del serial “I Borgia”; Lai, autore dei costumi della serie “I Medici” e di tutti i film di Ozpetek, Maurizio Millenotti. E poi naturalmente Canonero, Quirino Conti che diresse la sua ultima messinscena, un delizioso Matrimonio Segreto di Cimarosa per il Teatro Caio Melisso di Spoleto, scrigno della Fondazione Carla Fendi che di tutta questa eclettica nidiata era la madrina vigile e affettuosa, generosissima.
Scorrere l’elenco dei suoi allievi e dei suoi assistenti equivale a raccontare la storia del costume cinematografico e teatrale di oggi
L’eredità di Tosi sono quei disegni che non fanno parte dell’Archivio della Fondazione Gramsci, di quello di Tirelli e nemmeno del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove aveva insegnato per decenni e negli ultimi tempi senza troppo interesse per le evoluzioni dell’istituto. Il lascito vero, che spunta ogni giorno, accompagnato da un racconto, sono i bozzetti raccolti dagli studenti o dalle sarte fra i tanti che gettava qui e là e che talvolta Bolognini gli strappava dalle mani, perché non apportasse ancora una modifica, di certo bellissima ma dispendiosa. Sono i disegni regalati agli assistenti o, come nel caso di Lai che sui riferimenti pittorici nella sua opera per Visconti aveva scritto la tesi di laurea, realizzati apposta, perché riferimenti e spunti fossero chiari, evidenti. Qui il tratto è a penna, veloce, tratteggiato su un blocco per gli appunti della sartoria, e la messinscena scelta è quella della Locandiera di Goldoni di cui, prendendo spunto da Chardin e da Morandi, Tosi avrebbe cancellato per sempre l’estetica tutta pizzi e falpalà, mossette e svenevolezze di due secoli di rappresentazioni: con lui i panier di Mirandolina diventano linea elicoidale, il torso un cilindro, la scena essenziale. E’ Morandi che guarda a Piero della Francesca: il Goldoni che conosciamo adesso, quello “strehleriano” come usa dire, un po’ sbagliando, è il risultato della profonda rilettura spaziale e coloristica che ne avevano fatto, nei Cinquanta della sperimentazione, Tosi e Visconti. Poi, di certo, spendeva, e ne sono prova altri bozzetti, altri disegni custoditi da Poggioli, per anni proprietario con la famiglia della storica manifattura di gioielli per il cinema L.A.B.A., che raccontano la storia dei gioielli di Laura Antonelli nell’Innocente, o di Maria Callas in Medea. “Disegnava tutto, fino all’ultimo bottone”, racconta. “Certo, erano altri tempi, su un film si poteva lavorare per un anno, penso alla ‘Storia di una capinera’, mentre oggi il limite massimo sono tre mesi e in futuro chissà”. Ma Tosi era capace di mettere da parte il proprio lavoro e i propri impegni per aiutare i colleghi, in particolare i più giovani: “Per una serie su Giasone e gli argonauti a cui stavo lavorando in Turchia, un tema che pure conosceva bene, si mise all’opera per settimane, senza nemmeno dirmelo”, dice ancora Poggioli: “Quando arrivai a Roma per lavorare alla campionatura, trovai ad aspettarmi un enorme pacco di fotocopie”. Mai badare a spese, pur di ottenere il meglio. I costumi del Don Carlo sono entrati nella storia perché, pensati per rilanciare Tirelli dopo la morte del fondatore, avevano rischiato di affossarla: 150 milioni in più rispetto al budget erano una cifra enorme. Ma Piero Tosi aveva visto lontano: il successo fu tale che vennero affittati per decenni, ammortizzando la spesa iniziale e lanciando nel contempo l’archivio storico della sartoria e i suoi tesori. Maria Monaci Gallenga, l’imprenditrice che amava il Rinascimento e che da decenni era dimenticata, non avrebbe potuto trovare migliore supporter.
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