Quando l'abito fa la ripresa
Si dice moda ma non è solo il reparto ricami e lustrini nazionale. Riguarda tutto: l’economia, il digitale, la distribuzione, l’immobiliare. E sarà il banco di prova di ogni possibile ripartenza dopo il lungo fermo. Indagine su un cambiamento
Riguarderà tutto. Il digitale, la distribuzione e la logistica, l’arte, l’economia, l’immobiliare. Dunque, anche se non dovesse interessarvi più di tanto, anche se fate parte di quelli che si sentono superiori alla moda e la guardano con il desiderio gravido di colpa dell’intellettuale sedotto dalla cocotte, con lo spirito di Charles Swann con Odette de Crécy che “non era il mio genere”, varrebbe la pena che seguiste con un po’ di attenzione le decisioni del reparto ricami e lustrini nazionale nei prossimi mesi, perché sarà il banco di prova e di sperimentazione di ogni ripresa possibile.
Nel mondo i magazzini sono pieni di merce invenduta della stagione primaverile trascorsa in lockdown. Poi ci sono gli Stati Uniti con le proteste per l’omicidio di George Floyd, emergenza delle ultime ore ma forse non inattesa da parte della moda che sconta il peccato originale dello sfruttamento delle risorse umane
Ovunque nel mondo, i magazzini sono pieni di merce invenduta della stagione primaverile trascorsa in lockdown; buyer e brand si rimpallano acquisti e fidejussioni a tutto svantaggio dei primi; la gente entra di malavoglia nei negozi sanificati come sale operatorie e se proprio deve compra sui marketplace digitali, contribuendo al gran traffico di packaging voluminosi che saranno il nuovo problema della sostenibilità mondiale insieme con quegli inutili guanti di plastica e quelle dannate mascherine monouso che hanno un impatto ecologico esplosivo quando basterebbe promuoverle lavabili e sterilizzabili per evitare di riempire strade e cassonetti di rifiuti speciali.
Poi, ci sono gli Stati Uniti con le proteste delle comunità afro-americane per l’omicidio di George Floyd, emergenza delle ultime ore ma forse non proprio inattesa da parte della moda che sconta il peccato originale dello sfruttamento delle risorse umane (anche bianche, pensate a Dickens), dalla prima Rivoluzione industriale: pseudo-schiavi e bambini bianchi nelle manifatture di cotone di Manchester e Liverpool, schiavi neri nelle piantagioni di cotone, senza contare tutti i corollari e i derivati successivi che portano diritto alle accuse a Prada e Gucci di razzismo dell’anno scorso e ai successivi autodafé: non ci eravamo resi conto che poteste interpretare male le labbra oversize dei nostri gadget e dei nostri maglioni a collo alto, sorry. Non è un caso che, nonostante le boutique devastate a New York e Los Angeles durante le proteste, i furti e le razzie a opera di frange identificate dei movimenti o anche semplici sciacalli, i grandi brand abbiano dichiarato compatti la propria solidarietà al movimento “Black lives matter”, così come era inevitabile che Bernard Arnault prendesse tempo sulla finalizzazione dell’acquisto di Tiffany, un’operazione da 16,2 miliardi di dollari annunciata lo scorso novembre, a fronte dell’instabilità di cui il paese governato da Donald Trump sta dando prova. Non sono segnali di poco conto: per l’Italia, gli Stati Uniti rappresentano ufficialmente il quarto mercato di destinazione del proprio export moda, ma togliendo la Francia e la Svizzera, che occupano i primissimi posti per ragioni manifatturiere e logistiche, si collocherebbero al secondo posto.
Dopo il coronavirus, i “riots” americani non ci volevano. Per l’Italia, la moda è la seconda voce nella bilancia dei pagamenti e dà lavoro fra attività dirette e indotto a quasi 2 milioni di persone; in tutto il mondo è un settore quasi altrettanto importante, in grado di muovere non solo manifattura e engineering ma anche il turismo e i servizi e di sostenere la cultura come gli stati hanno sempre meno risorse per fare, al punto che non possiamo credere all’abilità del ministro Dario Franceschini di assicurare ogni volta nuovi sostegni al suo dicastero. Vi piaccia o meno, se si ferma la moda, a cascata rischiano editoria, alla quale fornisce risorse preziose che anche l’aumento dei lettori digitali dell’ultimo periodo non basta a sostenere; pubblicità e relativo indotto, fiere e servizi, e non solo di settore. La moda stende infatti il suo manto di preziosa immagine su quasi ogni settore merceologico e produttivo del paese. Una ricerca Astra/ADC Group su base Oxford Economics ha calcolato che a fine 2018 il settore degli eventi in Italia generava un indotto di 65,5 miliardi di euro e impiegava 569 mila addetti, con un impatto diretto sul pil di 36,2 miliardi grazie anche al ritorno sull’hotellerie: tutto questo, al momento, è fermo e, come vi sarà chiaro, per sostenerlo non bastano certo i webinar, i seminari sul web per i quali riceviamo almeno venti inviti al giorno che, sommati al tempo trascorso davanti al video per le riunioni in smartworking, ci hanno trasformati in nerd dilettanti ma con gli stessi occhi cerchiati di nero. Il tessile-moda si sta organizzando per contrastare gli effetti del lungo fermo delle attività produttive e della mancanza di ordinativi, con un ricorso alla cassa integrazione che, denunciava giovedì mattina il Centro studi di Confindustria Moda per Smi-Sistema Moda Italia, ad aprile ha superato i 47 milioni di ore.
C’è molta voglia di fare e di non abbattersi, e lo si vede in queste prime settimane di parziale riapertura con una serie di nuove collaborazioni trasversali, e Deloitte ha appena segnalato che, stando alle sue ricerche, il 70 per cento degli investitori continuerà a dare fiducia al lusso. Però, prima di scendere in ognuno dei tanti aspetti della questione, dobbiamo sgombrare il campo da due argomenti capziosi e fuorvianti. Il primo: l’idea che la conversione di molte piccole imprese nella produzione di mascherine chirurgiche e “per la comunità” nelle settimane del lockdown, in cui alcune piccole imprese hanno investito fino a 300 mila euro in nuovi macchinari sottoponendosi anche alle infinite richieste di documenti e verifiche, le abbia aiutate a contrastare le perdite imposte dallo stop produttivo. Non è andata così, e purtroppo. L’imposizione del prezzo di vendita a 0,51 euro da parte del commissario straordinario per la gestione dell’emergenza coronavirus Domenico Arcuri, inferiore di oltre 10 centesimi a quello di produzione, ha costretto quasi tutti a vendere le mascherine già in buona parte prodotte all’estero. Arcuri si è organizzato altrimenti con altre imprese selezionate successivamente e andando a cercare manodopera anche nelle carceri, sfruttando gli incentivi del decreto Cura Italia: per fare i conti, e cioè verificare se e quanti saranno riusciti a rientrare almeno delle spese, bisognerà attendere qualche mese. Di certo, aver promosso mascherine usa-e-getta invece di quelle riutilizzabili prefigura il rischio di un disastro ecologico. Il secondo argomento sviante per la comprensione, o almeno per un’ipotesi ragionevole, su che cosa stia succedendo nella moda e come orientarsi nel suo presumibile futuro, è il calendario delle sfilate di Milano. Ne avete letto molto perché questo è l’argomento prediletto dalle giornaliste di settore che non hanno più modo di lamentarsi per la fatica di dovervi partecipare, visto che non si terranno prima di fine settembre e il prossimo luglio la Camera nazionale della Moda ha approntato una fashion week digitale che, tant bien quel mal, recupererà anche le celeberrime sfilate cruise, quelle più “facili” e commerciali, alle quali i brand, non a caso, destinavano buona parte delle risorse di comunicazione. Ovunque si sono levate grida da parte di stilisti indipendenti e maison per un “ripensamento e rallentamento del sistema”, anche da Londra e da New York dove già la fashion week era periclitante da tempo (le rappresentazioni sceniche funzionano quando ci sono scenografi e costumisti dietro le quinte, ovvero quando c’è una filiera produttiva, come in Italia: Manhattan ha sempre e solo avuto, fin dall’Ottocento, produzione di abbigliamento per la massa, non moda, e ha prodotto altrove, molto in Italia e moltissimo in Asia). E’ comprensibile che in un momento in cui nessuno può viaggiare e spostarsi liberamente, brand e creativi colgano l’occasione per tentare di ridurre al minimo e possibilmente per sempre i costi e la fatica di ideare e allestire eventi faraonici che producono una quantità di Co2 tale da vedersi costretti a piantare ogni volta un albero per invitato, cioè una foresta, ed è altrettanto logico che chi queste occasioni gestisce e governa, come i presidenti delle associazioni di categoria che nel caso italiano risponde al nome di Carlo Capasa, si battano invece per mantenerle, insieme con il ricco indotto in termini di turismo e attività di ristorazione. Fa parte del gioco delle convenienze e a settembre, statene certi, non se ne parlerà più perché si sarà trovato un accomodamento che non penalizzi troppo nessuno. Nel frattempo, magari, i giovani stilisti avranno trovato una collocazione migliore per mostrare le proprie collezioni.
Riapertura de la Rinascente, fase 2 dell’emergenza coronavirus (foto Claudio Furlan/Lapresse)
Dunque, non vale la pena di fissarsi sulla conversione produttiva, che non è un’alternativa e che ha funzionato solo come veicolo di immagine per colossi come Giorgio Armani, e date il giusto peso anche al tema delle sfilate, che non spariranno perché servono a tutti, e vorremmo proprio vedere come funzionerebbero presentazioni random, ognuno per sé, come le ipotizza Anthony Vaccarello di Saint Laurent. Le sfilate torneranno; meno costose e più democratiche, si spera, cioè meno tarate sullo strapotere delle multinazionali. Vale invece la pena di provare a guardare lontano, in prospettiva, e soprattutto alla nuova percezione, dilatata e un po’ immobile, del tempo e di conseguenza delle competenze e delle esigenze riformulate da Covid-19, dal lockdown e dalle infinite ore trascorse a casa fra smartworking forzato e no. Attorno alla nuova misura del tempo e alle misure economiche che verranno adottate per contrastare (o assecondare con intelligenza) i ritmi di vita durante e post Covid si sta infatti sviluppando il nuovo sistema della moda. In estrema sintesi: meno e meglio, anche in termini di competenze professionali.
Se si ferma la moda, a cascata rischiano editoria, alla quale fornisce risorse preziose, pubblicità e relativo indotto, fiere e servizi, e non solo di settore. La moda stende infatti il suo manto di preziosa immagine su quasi ogni settore merceologico e produttivo del paese. Gli eventi, un settore da 65,5 miliardi
Questo cambiamento toccherà ogni segmento dell’industria e in particolare di quella che si crede o che si vuole sostenibile, partendo appunto dal nuovo tema del packaging, che fino all’anno scorso sembrava sussidiario rispetto a quello degli scarti di produzione e che invece, come osserva anche Capasa, sta diventando centrale. Il nuovo ordine sta vanificando progressivamente i ghiotti ricavi dei fondi di investimento, riportando il patron dell’azienda al centro e i suoi eredi nella condizione di doversi dare da fare, magari studiando. L’accelerazione al virtuale impressa dal Covid-19 anche in un paese prepotentemente fisico come l’Italia farà della logistica il pivot di un sistema dove l’unico indicatore che stia continuando a crescere è quello dell’e-commerce e dunque, se mai dovesse prendervi l’uzzolo di investire in un settore nuovo, è lì che dovete farlo; lì e nel suo corollario finto-giocoso, il gaming e le app di styling e di acquisto come Drest, che movimenteranno un mercato costretto presumibilmente ancora a lungo alla para-immobilità fisica e infatti nessuno, anche in questi mesi, ha mai rivisto al ribasso le previsioni di crescita del settore delle app fino ai 180 miliardi di dollari di giro d’affari che dovrebbero toccare nel 2021. La moda che fatica a uscire dai negozi perché oggettivamente sanificarsi di continuo spella le mani e fa scappare la voglia, sta cercando nuove exit strategy, e la principale di queste passa attraverso lo smartphone: una settimana fa Gucci ha annunciato un accordo commerciale con Tennis Clash, il tennis game più praticato del momento, e anche il ceo di Condé Nast Italia, Fedele Usai, si dice sicuro che questa sarà una delle leve di marketing più significative del prossimo futuro. Vale la pena di prestare ascolto al “buzz and feed” della moda, perché sta già riformulando il profilo dei manager più ricercati sulla centralità della conoscenza di prodotto, e non di finanza. Dice Maria Rita Meucci dalla società di ricerca QuoJobis che le nuove richieste per le posizioni apicali nelle grandi aziende si stanno concentrando non sui laureati in Economia e finanza, ma sui dottori in Ingegneria gestionale e tessile e in Marketing di prodotto, cioè su quelle figure professionali che sanno pianificare la trasformazione del retail, la distribuzione del mercato, e che distinguono un jersey di seta da uno sintetico senza tenere gli occhi troppo fissi sul Roe a scapito del valore di marca.
In troppi casi, negli ultimi quindici anni, questo spostamento dell’asse delle imprese moda sulla finanza ha portato alla massificazione del prodotto e allo svilimento del suo valore, da cui i famosi e ingiustificabili roghi di invenduto. Di questa trasformazione in atto abbiamo nuove prove ogni giorno da mesi. Il manager più ambito del momento è infatti Jacopo Venturini, dalla prossima settimana amministratore delegato di Valentino, nato professionalmente come buyer in Rinascente e per lunghi anni creatore delle fortune commerciali di Prada e di Gucci; l’uomo della messa-a-terra delle idee, della trasformazione delle intuizioni dei creativi in scarpe, borsette e abiti vendibili. Dieci giorni fa, in piena crisi di vendite in Asia, in Ferragamo ha fatto un passo indietro nella propria azienda anche il vicepresidente operativo Ferruccio Ferragamo, gran signore di gusto squisito, richiamando a occupare la carica il settantenne Michele Norsa, il mago del retail che in sedici anni, dal 2000 al 2016, ha portato l’azienda fiorentina alla leadership in Cina e che per primo ha intuito lo sviluppo della Corea. La Borsa ha salutato il rientro del manager con un balzo del 15 per cento. In silenzio, gli uomini-finanza stanno lasciando le posizioni chiave nei grandi brand: il prodotto e il suo valore tornano centrali nel momento in cui la gente, che per di più ha poche occasioni di socializzazione, deve essere invogliata davvero all’acquisto. (segue nell’inserto IV)
La moda in cerca di nuova legittimazione che sta ridando fiato all’artigianato e alla qualità. Che paga lo scotto della superficialità pur di non pagare quello rovinoso della noia, ma arricchisce o dà da vivere a un numero infinito di operai, tecnici, professionisti, gestori di fondi, consulenti, editori, pr, registi, fotografi
La moda in cerca di nuova legittimazione sta dunque ridando fiato all’artigianato e alla qualità verificabile ed è una buona notizia per l’Italia, purché il governo badi a non penalizzare ulteriormente le piccole imprese esportatrici chiedendo per esempio – ne facciamo uno fra i tanti possibili perché lo stiamo seguendo da vicino – l’anticipo dell’Iva 2021 calcolata sul plafond 2019 (l’emendamento, suggerito da Cna Federmoda che vorrebbe il calcolo rivisto su una media ponderata a tre anni, verrà portato nei prossimi giorni alla discussione del decreto Rilancio dal viceministro Ivan Scalfarotto di Italia viva).
Il sistema del fast fashion che negli ultimi vent’anni abbiamo visto fagocitare con i suoi ritmi perfino il lusso come lo conosciamo oggi sta avviandosi alla fine; forse resisterà sull’e-commerce. La moda sopravvive perché risponde ed enfatizza il bisogno identitario di ogni individuo e di ogni gruppo
La moda e il tessile vanno rimodellando anche l’editoria e la pubblicità, attualmente in calo del 19 per cento di media, una cifra che non toccavamo dai tempi della Guerra del Golfo, perché la strategia che ipotizziamo come vincente tenderà a premiare i prestigiatori dello spariglio nei contenuti e i maghi della fidelizzazione alla testata, come nel secondo Dopoguerra dell’affermazione identitaria della stampa femminile e di moda e quando, non a caso, si fecero largo non solo testate come Elle e Marie Claire, che erano sostanzialmente agli esordi, ma anche Vogue che era stato lanciato mezzo secolo prima. Tenete gli occhi aperti, anche per vostro interesse personale se mai foste curatori o formatori, perché la moda colpita nei consumi e traballante sulla propria ragion d’essere avrà sempre più bisogno di trasformarsi in conoscenza e cultura, di apparentarsi all’arte e di mostrarsi solidale per farsi perdonare lo sfruttamento intensivo del pianeta degli ultimi vent’anni (ma potremmo risalire anche a James Hargreaves, l’inventore della Giannetta, e agli sweatshop dickensiani) e quella “incuria affaristica degli uomini” di cui Eugenio Scalfari, grande affarista editoriale, parla ad Antonio Gnoli e Francesco Merlo nel suo nuovo memoir.
La moda va osservata con cura entomologica per tutti i prossimi tre anni almeno e non solo perché l’ultima ricerca di Bain&C per Altagamma dice che fino al 2023 non si recupererà il livello raggiunto nel 2019 e perché anche stavolta alla moda toccherà il ruolo di apripista e il conto da pagare alla fine, ma perché è capace di evoluzioni creative abbastanza uniche. La moda è come quella vecchia battuta di Gingers Rogers che diceva di fare tutto come Fred Astaire, ma di saperlo fare all’indietro e sui tacchi alti: deve fare tutto quello che fa, per dire, l’industria dell’alimentare con cui condivide qualche aspetto edonistico o quella delle rubinetterie che comunque inquina meno di lei, ma senza mostrare gli stessi liquami e gli stessi operai stanchi bensì scintillando, cioè continuando a mantenere alto il nostro desiderio di riempirci gli armadi pensando che quelle scarpe meravigliose siano state create nottetempo dagli gnomi della favola dei fratelli Grimm e l’abito da sera cucito dai topini della Cenerentola di Walt Disney. Deve, insomma, indurre nel modo più seducente e autorevole possibili la coazione ad esibire la carta di credito per pagare cento quel che costa 25 ma anche molto di meno, diciamo dodici. Lungo il tragitto fra queste due cifre, la moda che paga lo scotto della superficialità pur di non pagare quello rovinoso della noia, arricchisce o dà da vivere a un numero infinito di operai, tecnici, professionisti, gestori di fondi, docenti, consulenti, analisti, editori, pr, registi, fotografi, allestitori di fiere che talvolta va a cercare fra gli artisti del Carnevale di Viareggio, e poi modelle, ristoratori, influencer e anche a quella speciale categoria di mediatori che sono i buyer, cioè i compratori di moda; quelli che negli anni Settanta si chiamavano i bouticcari e che, lavorando di fino e sottotraccia in quell’area grigia che viene definita “mercato parallelo” e che le piattaforme collettive come Farfetch hanno iniziato a erodere e che il Covid-19 ha soffocato, negli ultimi vent’anni hanno fatto le fortune non solo dei brand e della loro orgogliosissima affermazione sui mercati stranieri, ma anche e non di rado quelle private dei loro manager.
La preparazione per la riapertura di un negozio di abbigliamento a Milano (foto LaPresse)
Tutti noi che compriamo abiti e scarpe e borse e gioielli e occhiali contribuiamo a mantenere in vita questo sistema scintillante e opaco da cui fino a oggi siamo stati perlopiù esclusi o talvolta indotti in false credenze, come nel caso del fast fashion, quando abbiamo comprato roba di poco valore che non potremo mai rivendere nella nuova corsa pazza al vintage perché non ha mercato. Vi sarete accorti che le catene del fast fashion stanno chiudendo negozi uno dopo l’altro: H&M otto solo in Italia e se, come dice l’amministratore delegato di Ovs Stefano Beraldo, anche gente che guadagna meno di duemila euro al mese ha il diritto di vestire bene e con garbo, è vero che anche questa fascia di mercato non vuole più chiudere gli occhi su qualità ed etica del lavoro pur di cambiarsi d’abito. Il sistema del fast fashion e che negli ultimi vent’anni abbiamo visto fagocitare con i suoi ritmi perfino il lusso come lo conosciamo oggi sta avviandosi alla fine; forse resisterà sull’e-commerce e diventerà il nuovo dirty secret del sistema. La moda invece sopravviverà, come è sopravvissuta alle leggi di Catone il censore, alle multe medievali sullo sfoggio di oro, ricami e pellicce, ai roghi di Gerolamo Savonarola, alla decapitazione di Maria Antonietta, alla Parigi occupata dai nazisti che cercavano di annettersi pure gli atelier e alla democratizzazione coatta teorizzata da Roland Barthes e incarnata nel jeans unisex. Sopravviverà perché risponde ed enfatizza il bisogno identitario di ogni individuo e di ogni gruppo. Moda e modo hanno la stessa radice etimologica, la stessa storia, e non c’è nulla come la storia di una parola per comprendere il futuro del suo significato, la sua applicazione e le sue potenzialità. Statene certi, la moda non muore, come gli amori dei film di Mario Caserini. Ma come farà a sopravvivere? Per adesso, possiamo solo prevederlo, ma molti segnali e tante conversazioni che abbiamo tenuto in questi mesi, compreso l’aumento dei prezzi di media di Louis Vuitton e Chanel, ci dicono che il processo di orizzontalizzazione sociale, economica e perfino lessicale della moda iniziato alla fine degli anni Sessanta del Novecento sia arrivato alla fine e si stia riposizionando nuovamente sulla verticalizzazione. Appunto molto e molti di meno, molto e molti di meglio, cioè di maggiore competenza. Molto più piccolo, molto più vicino. Circolarità a chilometro zero, distanziamento sociale dettato da quello economico (no, il virus non ha colpito nello stesso modo chi vive negli attici del centro e chi nei monolocali di periferia, smettiamola di raccontarci fandonie), comunicazione pensata per rafforzare il sentimento di aderenza a un progetto o a un comune sentire, ridondanze di ogni genere rese inutili dall’osservazione di quanto si possa fare anche in modalità smart working, purché provvisti di idee e di buona capacità organizzativa.
Un amico consulente di impresa di grande rilievo come Alessandro Maria Ferreri sostiene che saranno sempre meno necessari anche gli uffici stampa di corrispondenza, quelli che in buona sostanza fungevano da showroom e tintorie del brand nelle capitali della moda, impacchettando vestiti per gli shooting e invitando stampa e socialite locali a eventi e sfilate. La pandemia ha reso evidente che si possono inviare i capi a fotografi e case di produzione in poche ore ovunque senza muoversi dall’ufficio: dunque, più direzioni comunicazione interne, qualche consulente esterno di vaglia, finita con la pletora di addette stampa del comunicato copia-incolla, della terminologia uguale e banale per tutti i clienti, dei “must have” e dei “capi iconici” e per forza di banalità lessicale indistinguibili l’uno dall’altro. Di meno, meglio, ancora una volta, per aiutarci a superare l’angoscia che ci ha colti, ovunque nel mondo ricco che ormai tocca tutti i cinque continenti, quando chiusi in casa per la quarantena ci siamo resi conto dell’inutile sovrabbondanza del contenuto dei nostri armadi e abbiamo iniziato a calcolare quanto denaro vi abbiamo investito, o buttato, dalla nostra adolescenza a oggi. Comunque troppi e per ragioni non sempre chiare.
Giorgio Armani è stato il primo, e per molte settimane il solo, a fischiare il fine partita con la sua ormai celebre lettera aperta, l’io non ci sto del Quirinale della moda. Quello che non riuscì all’attacco alle Torri Gemelle e perfino al crollo di Lehman Brothers e al sistema gonfiato dei mutui subprime è riuscito al virus Covid-19
Due anni fa, Burberry bruciò capi e accessori invenduti per un valore di 31 milioni di euro pur di non svilire il valore di marchio. Un sistema che sentiva l’esigenza di mandare a fuoco l’invenduto per garantire ricchi multipli a banchieri, avvocati e azionisti non era un sistema sano o tanto meno sostenibile e questo benché negli stessi bilanci in cui affermava la distruzione del surplus ci si ingegnasse per indicare “lo smaltimento responsabile dei prodotti” e l’impegno nella “ricerca di modi per ridurre e riciclare i rifiuti”. Era, e in realtà è ancora, un sistema che non dava valore alla bellezza dell’oggetto e alla fatica di realizzarlo, ma solo ai cosiddetti “intangible asset”: marca, Roe, finanza. E’ così dalla fine degli anni Ottanta, quando Bernard Arnault comprò Dior e poi Lacroix e Vuitton e poi e poi, fino a diventare il terzo uomo più ricco del pianeta. E’ così da quando Henri Pinault ne seguì le orme. E’ una buona cosa che entrambi, il secondo soprattutto grazie al figlio François Henri, stiano investendo nel riequilibrio del sistema, consci della sua prossima dissoluzione a meno che non ne cambino le condizioni, e non ci sono dubbi che in questo progressivo riassetto entri anche il nuovo programma di sostegno alle imprese d’eccellenza della filiera promosso da Gucci con Intesa Sanpaolo: che poi, come teme qualcuno, questo si risolva nella cessione di alcune piccole aziende al colosso è abbastanza nell’ordine delle cose e succede da ben prima che i media iniziassero a frignare sulle “piccole eccellenze italiane costrette a vendersi al miglior offerente”. L’impero di Armani è tutto di sua proprietà, per dire, fabbriche comprese, da molto tempo. Quarant’anni (sessanta dall’inizio del pret-à-porter italiano) per un ciclo economico sono tanti, quasi tre generazioni, e infatti potremmo dire che gli ultimi dieci, pur così brillanti, sono stati un’agonia. La grande bugia del lusso accessibile che era solo delocalizzazione produttiva, la moltiplicazione spasmodica delle collezioni, gli eventi fantasmagorici, lo strapotere dei grandi, i volenterosi tentativi della Camera nazionale della Moda di mettere ordine e fare pulizia con la carta della sostenibilità, i criteri etici a cui uniformarsi e che tutti, a parole, sottoscrivevano e qualcuno invece impegnandosi davvero, come Prada o Ferragamo o Giorgio Armani che poi, come noto, è stato il primo, e per molte settimane il solo, a fischiare il fine partita con la sua ormai celebre lettera aperta, l’io non ci sto del Quirinale della moda. Uscire da un sistema nato per escludere e dove tanti avevano faticato molto per entrare era pressoché impossibile, come osservava qualche settimana fa la trend forecaster Li Edelkoort in un lungo scambio che avemmo per mail (lei si trovava in Sudafrica e già, da lì, immaginava un futuro di atelier di vicinanza). Quello che non riuscì alla Guerra del Golfo, all’attacco alle Torri Gemelle e perfino al crollo di Lehman Brothers e al sistema gonfiato e putrido dei mutui subprime è riuscito al virus Covid-19, e non crediate a una parola di quelli, e sono tantissimi, che oggi dicono di aver sentito da anni la necessità di un cambio: se mai avessero voluto rinunciare a una vita di agi e flute di champagne gratuiti, ognuno la sua fettolina di benessere e di vizi, sarebbero intervenuti prima sui gangli dell’organismo della moda, cosa che naturalmente non hanno fatto, e adesso fa tenerezza vedere le facce deluse dei laureandi e dei giovani stagisti che speravano di accedere a questo mondo di feste dove tutti dicono “amazing” per qualunque banalità e che invece hanno realizzato di essere saliti sulle assi di un teatro in disarmo, bambole non c’è una lira, mentre pensavano di essere entrati a far parte della Compagnie de Monsieur con Molière capocomico. Andare in scena bisogna, ma il pubblico ha esigenze (e tasche) diverse, e dunque ha molto senso che il lusso abbia alzato i prezzi e rivisto i margini a seconda del canale distributivo, tanto sa benissimo che la fascia bassa del mercato è persa per il prossimo quinquennio almeno. “Quando il circo delle tigri e dei leoni sta per chiudere, bisogna sapersi trasformare nel Cirque du soleil”, osserva Usai, che va applicando la “disruption continua” sulle testate del gruppo, ogni mese e ogni settimana un apparente cambio di rotta per rafforzare il vissuto sorpreso e fideistico alla testata.
Detto questo, anzi proprio per questo, è un vero peccato che non abbiate potuto assistere alla conferenza stampa digitale di Alessandro Michele, dello scorso lunedì, a cui accennavamo nelle prime righe, perché vi avreste letto in controluce, oltre il suo sguardo poetico e socialmente impegnato che è e resta assolutamente reale e sentito, tutte le dinamiche che abbiamo esaminato fino a questo momento e le contromisure prese da uno dei cinque marchi player del sistema per tentare di riportarlo in equilibrio. I capi che d’ora in poi “vedremo più volte” nelle collezioni sono sì un sostegno al loro valore, in chiave antica, ma anche la risposta a modernissime necessità di magazzino. Le cinque sfilate che diventeranno due e le collezioni lasciate per mesi sulle relle delle boutique “perché si possano vedere e apprezzare più a lungo” sono certamente un garbato riferimento al passato aristocratico, quando le nobili vestivano con orgoglio capi bellissimi una stagione dopo l’altra e solo le cafone o le mantenute, entrambe in cerca di legittimazione sociale, cambiavano guardaroba di continuo (due-tre stagioni era la media considerata elegante), ma anche una difesa del loro prezzo quando è ovvio che sempre meno persone acquisteranno capi di pret-à-porter a diecimila euro. E a questo punto, cogliamo il tema del posizionamento prezzi per descrivervi che cosa stia succedendo agli intermediatori di questo sistema, i buyer, che per la maggior parte vedranno le proprie finanze contrarsi sensibilmente, e di certo non per causa nostra che compriamo una sneaker in più o in meno. Il famoso mercato parallelo che fino a oggi ha arricchito le maison, gonfiando i fatturati e trasformando i compratori più abili in rentier si sta spegnendo. Il parallelo permette, o forse permetteva, ai brand della moda di piazzare un bel po’ di produzione in città o regioni marginali di paesi come la Cina o le ex Repubbliche sovietiche senza intaccare il patrimonio di brand sviluppato con i negozi monomarca nelle grandi città. I buyer (talvolta consorziati) vi svolgevano il ruolo di intermediatori, facendosi anticipare parte del controvalore monetario dell’ordine da parte dei compratori, (dai russi, di solito, si esigeva fino al cento per cento cash); da parte loro, garantivano alle maison la merce con fidejussioni e che al momento opportuno consegnavano al remoto bouticcaro, pagandola alle maison a centottanta giorni data fattura e potendo contare quindi su un cash flow da far invidia a un istituto di credito. Il coronavirus, capitato disgraziatamente proprio in periodo di consegna, ha messo ex abrupto il lockdown anche al redditizio sistema: i buyer cinesi, russi o mediorientali hanno bloccato o respinto gli ordini, le maison si sono rifiutate di sciogliere l’impegno. Una maison milanese, di cui non facciamo il nome perché teniamo alla pelle, ha perfino riscosso la fidejussione, lasciando tre buyer nelle proverbiali ed effettive braghe di tela. Prevediamo prossime vendite di palazzi non aviti.
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