Nel guardaroba di Marilyn

“Era facilissimo vestirla, e io adoravo farlo”, ha detto il costumista William Travilla. Tra i vestiti dell'attrice c’è tanta Italia e tanta sapienza creativa nazionale

Fabiana Giacomotti

Nel gergo sartoriale, ancora modellato sul francese, la pieghettatura più ricca e difficile delle gonne femminili si chiama plissé soleil, perché a ogni movimento si apre come i raggi del sole nei quadri fondi oro dei “primitivi italiani”, dello stemma dei Visconti o dei disegni infantili. Si apre a raggiera, anzi a corolla, senza gonfiarsi e senza “sparare” sui fianchi come certi finti plissé a taglio dritto e montati su un elastico che si vedono in giro da quando la Cina ha sostituito sapienze affinate dai tempi della Grecia classica con pieghettature industriali a poco prezzo. Il plissè soleil è difficilissimo da eseguire a regola d’arte: ci vuole un’anima di cartone rigido tagliata di sbieco e ripiegata, un tessuto naturale di trama e corpo sostenuto (seta, crepe di lana leggero) modellato a mano fra le pieghe e fissato per mezzo di legacci, e poi passato in speciali macchine a vapore per ore intere. Quando, nel 1954, il costumista William Travilla dovette cercare il plissettatore ideale per l’abito che aveva in mente di far indossare a Marilyn Monroe nella nuova produzione della Twentieth Century Fox per l’anno successivo, The seven Year Itch (in italiano, “Quando la moglie è in vacanza” e sì, stiamo parlando dell’abito della scena della metropolitana), non gli venne in mente nessuno di specifico dalle parti di Los Angeles, e con ogni probabilità sapeva che la sua cliente aveva bisogno di peso sul fondo della gonna e attorno alle caviglie bellissime, e non sui fianchi. Taglio sbieco, che modella e snellisce, ci voleva per lei, e molto plissé, che peraltro Travilla adorava (“quando morirò, non crematemi, plissettatemi”). Si era in anni di peplum realizzati a costi convenienti a Cinecittà, Roma iniziava a popolarsi di produzioni hollywoodiane e di sarti “del cinema” e, com’è come non è, il costumista a cui la diva avrebbe scritto di “vestirla per sempre, please” si rivolse alle sorelle Antonini di via Quintino Sella, nel quartiere Sallustiano. “Non so perché l’attrice si rivolse a noi, ma il cartone della sua gonna è ancora qui, ed è questo”, ci disse quasi due anni fa Simona Belcastro, nipote di Ornella Antonini, aprendo con un gesto reverenziale un vecchio cartone che, uno spicchio dopo l’altro, formava un sole perfetto. Pochi giorni dopo avrebbe chiuso per sempre bottega, quattro generazioni di plissettature pazzesche, per via di un rincaro del canone da parte del Demanio (anche questo ha da rimproverarsi la sindaca Virginia Raggi che tanto ha fatto invece per le bancarelle di atrocità culinarie e di ciarpame made in Taiwan a bordo Tevere) e di clienti troppo poco numerosi. Antonini scompariva, il suo lascito fra fondazioni e musei, vittima di quel pret-à-porter che nel giro di due generazioni ha annullato la conoscenza della qualità sartoriale, un tempo patrimonio anche della piccolissima borghesia. L’episodio ci torna in mente fra questo 4 e 5 agosto in cui in tutto il mondo si celebra l’anniversario del ritrovamento del corpo di Marilyn Monroe nella sua villa a Brentwood perché, a differenza di Jacqueline Kennedy, lei non ebbe mai un gran daffare con l’Italia, né con Gianni Agnelli e Mario d’Urso e la Costiera Amalfitana; mai le botteghe capresi si aprirono di notte per accoglierla e mai la principessa Irene Galitzine avrebbe organizzato una cena in suo onore dove si sarebbe parlato di letteratura francese, di banalità estive e di conoscenze comuni perché il mondo è tanto piccolo.

 

Si può essere la star più desiderata del mondo e continuare a farsi sbattere le porte in faccia da quelle nate e sposate meglio di te, che era uno dei suoi infiniti crucci e la fonte primaria delle sue insicurezze. Eppure, c’è tanta Italia e tanta sapienza creativa nazionale nel guardaroba di Marilyn come in quello di Jacqueline a cui Valentino creò anche l’abito per le nozze con Aristotile Onassis, e se ne è avuta prova lo scorso gennaio, quando Ferragamo ha rimandato in produzione, con il nome di “Hollywood pump”, il celebre modello delle sue calzature, una décolletée molto femminile con il tacco ad ala di rondine e lo scollo alto sul piede che slancia la gamba e regala una cambrure molto seducente.

   

Leggenda vuole che Marilyn le facesse realizzare a Salvatore Ferragamo con il tacco di mezzo centimetro più corto del dovuto per aumentare ancora lo slancio delle reni ma quando, nel 2012, Ferragamo organizzò una grande mostra dei suoi abiti, costumi e accessori a Palazzo Spini Feroni affiancandoli ad opere d’arte classica, rinascimentale e moderna che avrebbero potuto ricalcarne la parabola esistenziale, compreso il gesso della Ninfa Dormiente del Canova, arrivato dal museo di Possagno, e una copia dell’Afrodite pudica nuda tipo Dresda Capitolino dal Museo di Fiesole, andammo ad esaminare le scarpe originali da vicino e non vi riscontrammo nulla di inconsueto. In compenso, l’abito del plissé era lì, inevitabilmente un po’ ingiallito, e ricordavamo benissimo che, in occasione della mostra “Glamour!” organizzata tanti anni prima al Metropolitan, Diana Vreeland aveva detto che Travilla si era limitato ad acquistare l’abito; una cosa che, come l’ex direttrice di Vogue America sapeva di certo (e che dunque fa suonare questa malignità di vendetta), un costumista del suo calibro, con una star come quella per le mani, non si sarebbe mai sognato di fare.

 

I due lavorarono insieme in otto film, e nelle sue memorie, “Dressing Marilyn”, Travilla racconta i tanti piccoli episodi sexy che costellarono la loro relazione, forse meno professionale di quanto si creda: la spallina del reggiseno nero caduta proprio durante il primo incontro, a mo’ di benvenuto, il riflesso callipigio di lei lasciato cogliere da un abile gioco di specchi fra camerino e sala prove. “Era facilissimo vestirla, e io adoravo farlo”. Le calze a rete a maglia larga sul costumino da attricetta di saloon di “River of no return”, la gonna stretta di “Giungla d’asfalto” e, ancora, l’abito in lamé color oro con la profonda scollatura pensato per “Gli uomini preferiscono le bionde” che, non potendolo indossare a lungo in un film (negli Anni Cinquanta, non avrebbe superato la censura, e infatti anche il celebre abito di satin rosa è un ripiego rispetto al clamoroso abito a rete pensato inizialmente da costumista), Marilyn volle mettere alla cena del Photoplay Award del 1953, previa doppia e pericolosa sessione di irrigazione del colon al fine di perdere qualche centimetro. Per essere certa dell’effetto, vi si fece cucire dentro, come avrebbe fatto con il famoso abito degli auguri a “mr President”, qualche anno dopo, il 19 maggio del 1962, pochi mesi prima di morire. Travilla la scongiurò di lasciar perdere, che quell’involucro dorato era un abito per il cinema, non per la vita reale, che era “too flashy”; lei rispose che si sarebbe truccata poco e che avrebbe camminato “come una vera signora”. Joe di Maggio, con cui era sposata in quegli anni, le fece una delle sue terribili scenate e Joan Crafword commentò di non aver mai visto nulla di così volgare, ma il giorno dopo gli awards, la foto di Marilyn era su tutte le prime pagine ed ancora quella più usata. “Le piaceva choccare, poteva essere magnifica o orrenda, una piccola barbona o una dea del sesso“, scrive ancora Travilla. E’ singolare a pensarci, ma ad esclusione di Ferragamo, che la calzava, non si ricorda un solo designer di moda che l’abbia mai vestita per la vita “reale”, quella di tutti i giorni, ed è un segno importante. Marilyn Monroe indossava abiti di scena sempre, oppure si limitava a un paio di jeans Levis’s e a una camicia a quadri quando era certa che non ci fosse un fotografo in giro. Diva sempre, anche nella celebre battuta sulle “due gocce” di Chanel n 5 che a suo dire indossava in luogo della camicia da notte. Anche quello era un abito di scena. O, più probabilmente, una maschera.

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