Il futuro degli influencer
Anche per il settore del lifestyle la nuova frontiera del marketing è Instagram. Un mondo variegato, dove non basta chiamarsi Chiara Ferragni e nemmeno avere milioni di follower
Per la prima del prossimo 7 dicembre, una “Lucia di Lammermoor” di cui poco si sa a causa del Covid e delle faticosissime riprogrammazioni di settembre, i vertici del Teatro alla Scala avevano preso in considerazione l’idea di coinvolgere una influencer virtuale: “Sai, una di quelle donnine finte”, mi scrive con un filo di malizia il direttore dell’ufficio stampa Paolo Besana dal buen retiro estivo in Puglia, dove il cellulare prende malissimo, intendendo come ovvio Lil Miquela et similia, cioè quegli avatar dagli occhioni sgranati e i tratti sapientemente multi-etnici che hanno milioni di follower e “collaborazioni” con brand del calibro di Prada che, incidentalmente, è anche uno dei maggiori sponsor del teatro. “Avrebbe dovuto essere finanziata da sponsor internazionali”, aggiunge, “che però, a causa della pandemia, hanno deciso di restare alla finestra ancora per qualche tempo”. Ma come? La prima ha bisogno di una modella digitale? – rispondiamo noi scandalizzate sempre per iscritto. E però visualizziamo in un lampo il foyer tipico dell’evento, le cofane e i gioielloni senza gusto e ci rendiamo conto che il pubblico del 7 dicembre ha necessariamente bisogno di un ricambio generazionale – che possa permetterselo adesso o meno – insomma di una strategia à la Hermès, del genere coltivali fin da quando sono piccoli perché si abituino a riconoscere quel punto di arancio a miglia di distanza. E infatti, arriva la risposta che ci aspettavamo: “Gli under trenta impazziscono (per le influencer virtuali, nda), ma il punto è che le aziende cercano nuovi strumenti per dare valore alle sponsorizzazioni. Abbiamo solo rimandato, ma l’idea resta, e ne abbiamo altre a cui stiamo dando forma”. Che il primo teatro lirico del mondo valuti la presenza di una influencer, digitale o meno, come una leva di comunicazione da perseguire, vi dà la misura del valore raggiunto da questa professione, solo relativamente nuova ma sempre molto snobbata dall’intellighenzia, fosse pure quella di second’ordine del giornalismo che, infatti, la detesta e non perde occasione per denigrarla, considerandola un sottoprodotto della comunicazione di moda e riportando ad esempio gli infiniti strafalcioni sintattici e ortografici dei suoi rappresentanti (la categoria scrive quasi esclusivamente in inglese, un idioma che in genere pratica come i Cinque stelle, nell’obiettivo abbastanza surreale di massimizzare i follower).
Che persino la Scala valuti la presenza di una influencer digitale vi dà la misura del valore raggiunto da questa professione
Nessuno, però, sembra essersi reso conto che la moda è solo una piccola parte, certo la più evidente, di questo sistema mediatico-commerciale che, come ogni altro, tocca invece quasi ogni settore del lifestyle e, causa ristrettezze imposte dal Covid, inizia ad ampliarsi anche a settori finora esclusi perfino dalla comunicazione classica come le associazioni di categoria e il lobbying. Lo scorso gennaio Fulvia Bacchi, direttore generale di Unic-Lineapelle, per tutti “l’imperatrice della pelle italiana”, forse in vista dell’ultima battaglia per la definizione istituzionale dei termini di cuoio e pelle (in sintesi, nessuno potrà più usare il termine “ecopelle”, derivati sintetici, anche derivati da fungo, insomma tutte le alternative possibili, ma senza vantaggi lessicali) ha ceduto alle richieste dei suoi associati assoldando una cinquantina di influencer di medio calibro perché interpretassero a loro gusto e creatività il tema della pelle naturale e del suo valore in una decina di post ciascuno: costo dell’operazione, 150 mila euro, facendo l’impossibile media del pollo diciamo circa 3 mila euro per influencer, cioè 300 euro a post. Forse sarà stato per lo scoppio della pandemia, forse per l’eccessiva fiducia nei mezzi strategico-contenutistici del piccolo esercito messo sotto contratto, ma i risultati non sono stati particolarmente esaltanti, tanto che “l’imperatrice” sta valutando alternative più politico-sofisticate o, forse, un maggiore controllo sulla truppa. Un post funziona sull’immediatezza, l’immagine, l’adesione al sentimento dell’epoca e del momento. Il lobbying è lavoro di fino, fosse pure per convincere le nuove generazioni che la pelle è scarto alimentare, vieppiù il cuoio.
Tutto è in apparenza più semplice sulla cucina, la bellezza e i viaggi, categorie ovvie e molto perseguite dato l’appeal sul vasto pubblico e l’approccio in apparenza abbordabile anche per eventuali dropout scolastici (per scrivere bene di cucina aver letto i classici è certamente un vantaggio, ma non è indispensabile), ma è un fatto che negli ultimi anni, pur con numeri diversi, alla lista degli influencer si siano aggiunti esperti di letteratura, arte e musica. A dispetto di quanto si crede, infatti, il numero di follower non è determinante per sviluppare le cosiddette “collaborazioni”, che sono in realtà accordi commerciali, talvolta creativi, fra influencer e aziende. Come dice Giorgio Guidotti, direttore della comunicazione del gruppo Max Mara, fra i primi a sviluppare iniziative di partnership e in special modo con attrici e modelle, quel che conta è la qualità dei post e l’engagement che sanno generare, cioè l’interazione con i “seguaci”. Gli/le influencer non sono solo le wannabe Chiara Ferragni, da 100 mila follower in su, gente che nell’ansia di far sporgere le terga modello Venere di Willendorf rischiano la lordosi a ogni post e che hanno fatto della propria immagine sui social l’unico mestiere, ma anche il pianista-critico Luca Ciammarughi dai capelli biondo platino, che a stento tocca i 2.500 follower, e perfino il biografo più quotato di Gustav Mahler, il settantenne inglese Norman Lebrecht. Il suo blog, “Slipped Disc”, l’equivalente settenote di Dagospia, è l’incubo e la delizia di ogni cantante, teatro, compositore e direttore d’orchestra su piazza, al punto che si vocifera molto delle sue fortune di editore in relazione a quanto scrive dell’uno e dell’altro.
“Quel che conta, è che l’influencer sia credibile, omogenea rispetto al marchio” (Giorgio Guidotti, Max Mara)
L’uso della testa, cioè dell’intelligenza, il successo in altro campo, la visibilità personale, sono fondamentali anche per gli influencer (e infatti si stenterebbe ormai a definire tale Chiara Ferragni), al punto che lo stesso ambiente della moda, spesso in dubbio sull’opportunità di invitare o meno il tale o la talaltra influencer vestita a festa, segue invece diligentemente l’account della soprano Anna Netrebko, che pure ha 597 mila follower ma che tutto si può definire fuorché una donna elegante e di stile, a dispetto delle carte di credito che brucia nelle boutique. Non è un caso che lo stesso Guidotti abbia fatto inserire un certo numero di post come clausola nel contratto delle superstar protagoniste dell’ultima campagna, Irina Shayk, Gigi Hadid, Adriana Lima e Joan Smalls: “Quel che conta, è che l’influencer sia credibile, omogenea rispetto al marchio”. E cita l’esempio di Olivia Palermo, un’attrice che, diremmo noi, è oggettivamente al limite dell’insipienza, ma che ha saputo interpretare per anni a dovere, e con molta partecipazione, l’immagine del marchio Max&Co. Che lo ha “sposato”, come si dice in gergo, senza sovrastarlo. L’influencer modello, champagne o moda o grande hotel che sia, deve essere consapevole di non essere il protagonista assoluto, ma un elemento del marketing mix, cioè di far parte di un progetto articolato, di una strategia complessa di cui rappresenta solo un ingranaggio e nemmeno il più importante. “Per noi, l’influencer marketing non supera il 10 per cento delle forze di comunicazione in campo”, spiega Guidotti, pur confermandone la validità per raggiungere quel pubblico, sempre più vasto, che non legge un libro, raramente un magazine, ma trascorre fino a tre ore al giorno a scrollare post su Instagram e filmetti su TikTok: “Negli ultimi dieci anni, i momenti di contatto con la cliente finale, i cosiddetti touchpoint, si sono moltiplicati, diventando virtualmente infiniti. Non dobbiamo trascurarne nessuno”.
Perfino la più antica forma di pubblicità e di giornalismo, la cartellonistica, finora osservata con sospetto dal lusso, si è evoluta in forme video-mobili di grandi dimensioni, al punto che, lo scorso luglio, la Camera nazionale della Moda ha affidato non solo la trasmissione delle proprie sfilate, ma tutto il palinsesto degli eventi maxi-schermo in città a una società specializzata in riqualificazione artistico-urbanistica, Urban Vision, mentre gli influencer sono stati a guardare, affinando armi e capacità. Nei tre mesi di lockdown, come segnalava Business of Fashion qualche settimana fa, le attività degli influencer sono crollate anche dell’ottanta per cento, ed è un fatto che molti siano dovuti tornare a vivere nella stanzetta dell’adolescenza, non riuscendo a mantenersi con i soli proventi del traffico. Lo scorso maggio, seguimmo sulla stessa testata online un webinar di agenti di influencer, un mestiere pressoché sconosciuto in Italia: parlavano solo di occasioni mancate sorbendo di continuo caffè annacquato sullo sfondo di salotti cheap. Ci venne il dubbio che il glamour della professione e l’attrazione che esercita sui giovanissimi fossero dati solo dai brand che li ingaggiavano, e ne abbiamo avuto la conferma quando ci è stato detto quanti dei blogger-influencer del food e del beverage si siano mossi di casa quest’estate senza compenso, diciamo in cambio merce: viaggio e soggiorno contro post a raffica. “Il costo di un influencer è variabile e dipende dagli accordi presi e dall’interlocutore”, spiega Adele Bandera, la più nota comunicatrice del food in Italia, in portafoglio clienti come Dom Pérignon, i Cerea di “Vittorio” e il ristorante dell’Armani Hotel. Alcune collaborazioni possono essere retribuite mentre altre “supplied by” con un cambio merce o regali. “Poi dipende da quanti follower veri e misurabili l’influencer è in grado di dimostrare e dal tipo di interazioni che ha con la sua community. Tanto maggiori sono, più le aziende sono disposte a pagare”.
Questo sistema mediatico si sta ampliando anche a settori finora esclusi anche dalla comunicazione classica
Anche se l’Authority ha messo un freno all’escalation di follower comprati, imponendo il silenziatore sul numero di commenti e di like a ogni post, e la sponsorizzazione palese, i risultati sono misurabili in misura paragonabile a quella di Ads, l’accertamento Diffusione stampa di storica memoria e, permetteteci di dire, altrettanto addomesticabili. “Esistono piattaforme dedicate che analizzano le performance di post e stories, e come ovvio le analytics di Instagram o di Google”, dice Bandera. “Meglio comunque utilizzare applicazioni terze, esterne ai social media, per evitare rischi di manipolazioni sui follower”. Alla base della piramide ci sono i “free”, a cui basta l’invito; poi si sale con i regalucci e qualche altro favore, quindi arrivano i soldi. Ma prima di arrivare a quelli “veri”, il lavoro è faticosissimo. Gli Gnambox, adorabile team del food con 151 mila follower, può guadagnare fino a 60 mila euro per un progetto di sei mesi; chi supera il milione ha diritto a 30-40 mila euro a post. Come in ogni professione, ci sono le star, che non subiscono la crisi o quasi, e le truppe che sgomitano. A nessuno basta più una foto. “E’ un mestiere che si sta raffinando”, osserva Fedele Usai, amministratore delegato di Condé Nast, che quasi due anni fa ha lanciato – con il supporto di duemila domande di iscrizione – la Social Academy, sviluppata in collaborazione con Sda Bocconi e del pigmalione di Chiara Ferragni, Riccardo Pozzoli. Partecipazione gratuita, pochissimi posti disponibili, fra le materie esaminate “storytelling visual/digital/social” che, volendo farlo come si deve, imporrebbe un’ottima conoscenza di storia, cinema, arte e arti applicate, purtroppo e in apparenza ancora molto lacunose. L’ignoranza crassa, disgraziatamente, quando c’è emerge anche da una riga di post ma, come annota sempre Usai, ci sono ampissimi spazi di miglioramento. Ed è ciò che, appunto, cerca a sua volta di fare, perché “se l’unico ramo commerciale che funzioni è l’e-commerce e il social più determinante è Instagram, ancorché quello più complesso nell’acquisizione di follower, va da sé che il gioco si risolva nella capacità di convertire le ‘fan base’ in azioni e che le due chiavi del successo siano la reputazione e la qualità del contenuto”. Cioè il branded content, quell’ibrido fra informazione, pubblicità, contenuto sponsorizzato e autocelebrazione a cui le aziende guardano come all’unica informazione per loro interessante e di cui, vogliamo essere onesti, sono infarciti anche i giornali.
C’è il caso di Olivia Palermo che ha saputo interpretare per anni a dovere, e con molta partecipazione, l’immagine del marchio Max&Co
Non fosse stato per trent’anni di interventi a gamba tesa degli uffici marketing delle case editrici, che soprattutto in Italia hanno trasformato magazine e pure quotidiani in contenitori di smascherabilissime notizie promozionate (nel gergo desunto dal lessico mercenario, “marchette”), probabilmente l’equiparazione fra informazione e pubblicità, fra “branded content” e notizie sarebbe meno sfacciata. Ma dopotutto chi siamo noi per giudicare, come dice anche Sua Santità, e se voleste andare a leggere quanto scrivevano gli estensori dei giornali ottocenteschi sulle modiste e i cappellai che incidentalmente disegnavano cappelli per il direttore o l’editorialista di pregio tipo Honoré de Balzac o Eugène Sue, avreste delle amare sorprese. Il giornalismo scevro da interessi commerciali non è mai esistito, siamo tutti figli di Émile de Girardin e di Théophraste Renaudot, il collettore di richieste di lavoro e notizie sparse stipendiato da Richelieu a cui è intitolato il più prestigioso premio giornalistico francese, che incidentalmente è anche il più antico di tutti. Nel caso voleste affidarvi a un influencer per la vostra prossima iniziativa di comunicazione, online trovereste una quantità infinita di guide, manuali, suggerimenti. Verreste, anzi, subito indicizzati, ricevendo offerte e suggerimenti direttamente sul vostro smartphone. Uno ci ha particolarmente colpiti: “I primi influencer non hanno scelto di esserlo; sono stati cooptati dai loro follower”. La vicina di casa a cui abbiamo chiesto dove avesse preso quello zerbino in fibra di cocco, l’amica con il nuovo taglio. Il gioco del vicinato, vecchio come il mondo.
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