Si dovrebbe rendere grazie in eterno a Gucci perché con una sola scelta iconica, con un solo casting, ci ha liberato dalla noia abissale di occuparci di body shaming e anche delle campagne anti body shaming. Almeno qui in Italia, il paese meno dotato di occhi dell’occidente (poi chiedetevi perché i musei vanno male). Quest’estate – mentre in altri luoghi del mondo con occhi più svelti sono alle prese con altri shame e proud e matter – in Italia è stata l’estate del body shaming e del suo contrario. Migliaia di corpi, meglio se un pochetto famosi, sono stati esibiti sulle apposite app per dimostrare orgoglio della propria imperfezione e invitare tutti (ma soprattutto le donne: particolare che fa parecchio retrò, nell’èra della fluidità) a non avere vergogna del proprio essere fuori dai presunti canoni di bellezza o dieta. Magari raggiungendo effetti di cinismo involontario, che è il peggiore, come Ferragni che sfoggia una cellulite che per lei non è shame, è moneta sonante. Tra le ultime Arisa, redarguita persino da donne per una foto in costume con la dida: “Sono un albero di arance, un panino al latte, una dea” (e speriamo non abbia pagato un copy per scrivere una banalità simile). Culture meno familisticamente attardate della nostra si accapigliano sui corpi da anni, e s’annoiano. Tanto che sono passati ad altro: il tema del momento è l’appropriazione culturale o di genere come violenza sociale. La cantante Adele ora si è esibita al carnevale multietnico per antonomasia di Notting Hill con un bikini nei colori della Giamaica e le treccine agghindate in maniera che fino a tre anni si sarebbe detta entica. Invece ora accuse pesanti (non si sapeva che Levy-Strauss avesse così tanti discendenti illegittimi) per appropriazione culturale indebita.
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