Alber Elbaz (LaPresse) 

Il foglio della moda

Alber Elbaz o della resilienza felice

Fabiana Giacomotti

A nessuno è mai successo di rientrare in questo sistema dopo cinque anni di assenza. A lui sì, nel tripudio generale. Ecco perché. E perché ha scelto di fare moda per donne di nove taglie diverse

L’ultima volta che incontrammo Alber Elbaz di persona fu nel maggio del 2017, a quell’unicum di mostra dei Musei Vaticani sulla storia della menorah: mai prima di allora il Vaticano aveva aperto le proprie sale ai simboli dell’ebraismo, e mai più l’ha fatto. Sponsorizzava molto generosamente Ronald Lauder, su curatela della direttrice Barbara Jatta e della celebre antiquaria Alessandra Di Castro. Fra le sculture, le incisioni e gli incunaboli giunti da tutto il mondo, insieme con una rappresentanza di aristocrazia ebraica giunta dagli Stati Uniti c’era anche una piccola, preziosissima menorah modellata a rami di mandorlo fioriti, opera del gioielliere Joel Rosenthal, noto come JAR e amico personale di Elbaz, che si aggirava nel braccio di Carlo Magno con il suo farfallino rosso, i capelli biondissimi e quello sguardo di meraviglia infantile che è il tratto più evidente del suo carattere e forse il motivo primario per cui è così amato dal mondo della moda. È un unicum infatti anche Alber Elbaz, nato quasi sessant’anni fa a Casablanca da una famiglia di origine ebraico-marocchina, cresciuto a Holon e laureato allo Shenkar College di Tel Aviv.

 

Dopo aver lavorato per Geoffrey Beene, Guy Laroche e Saint Laurent, per quindici anni, fino al 2015, ha guidato il rilancio e l’affermazione mondiale della centenaria maison Lanvin. La stampa lo idolatrava e le vendite funzionavano bene, ma forse non abbastanza per la nuova ceo Michèle Huiban: era stata appena nominata dalla proprietaria, la tycoon taiwanese Shaw Lan Wang, evidentemente voleva spingere sull’acceleratore per compiacere madame. Una mattina Alber, uomo mitissimo, arrivò in atelier, disse quel che sentiva di dover dire e per la prima volta sbatté la porta prima di andarsene. Nel giro di due anni le vendite di capi Lanvin erano tracollate e la maison veniva venduta al colosso cinese Fosun. Exit Lan Wang, exit Huiban, di cui non abbiamo più sentito parlare. Alber Elbaz, invece, spuntava ogni tanto con qualche progetto divertente, uno in particolare per Tod’s un paio di anni fa, ma insomma sembrava non avrebbe fatto più nulla di speciale.

 

Ora che ha appena lanciato il suo marchio di moda trasversale e inclusiva, A-Z Factory, sostenuto dal Gruppo Richemont, e che ci troviamo davanti al solito Zoom a raccontarcela un po’ dopo tutti questi anni, dice di “aver dovuto prendere tempo” per “innamorarsi di nuovo di questo lavoro”. Disegna moda da quando aveva sette anni, in mezzo secolo deve aver creato qualche milione di vestiti e di accessori; eppure, al momento di diffondere il video della sua collezione durante le sfilate della haute couture di Parigi, un paio di mesi fa (ha un fior di sceneggiatura ed è divertentissimo), si è fatto prendere dall’ansia e ha chiesto “un viatico”. Quindi, se mai vi venisse voglia di vederlo, su Youtube dove si trova ora, in coda trovereste gli auguri via Skype di Anna Wintour, Marc Jacobs, Pierpaolo Piccioli, Maria Grazia Chiuri, Rick Owens, Anna Dello Russo, oltre a Suzy Menkes che grida “whopee” come in un musical di Cole Porter e Kristin Scott Thomas che indossa i vestiti in mezzo a modelle di ogni età, peso ponderale e gradiente di fama. 

 

A parte Alber Elbaz, per certi versi John Galliano e in modo meno eclatante Alessandro Dell’Acqua, nessuno è mai tornato sul palcoscenico di un teatro spietato come quello della moda con così tanta forza, dopo un lasso di tempo così rilevante, dopo un’uscita a strappo come la sua. Cinque anni, quasi sei, sono tantissimi per questo settore: per un marchio di alto livello, cioè comprensivo di collezioni di haute couture, equivalgono a quaranta collezioni. La nuova impresa di Elbaz, sviluppata in buona parte in Italia perché per creare il “tessuto anatomico con tredici diversi gradi di elasticità” che desiderava per i suoi vestiti modellanti è dovuto andare dalla Mas di Urgnano, in provincia di Bergamo, è fresca, divertente, declinata in nove taglie (che è una quantità strabiliante per l’alto di gamma), ma contenuta nel numero dei modelli: in gergo la si definirebbe una “capsula”, ma si tratta di un termine che lui detesta perché è ipocondriaco e gli ricorda un medicinale. Dunque, la definiamo una “piccola collezione” che presenta qualche elemento di puro genio come la zip a catenella sul dorso dei vestiti per poterli chiudere senza aiuto, una serie di sneaker a punta che slanciano le gambe e su tutto uno zin di irriverenza che ci ricorda come la moda debba essere una gioia e non un obbligo.

 

Gli chiediamo se non senta che il concetto di sostenibilità debba essere esteso anche alla propria persona, cioè al lato etico e umano del lavoro, e se, come Giorgio Armani, non ritenga che la moda pre-Covid avesse imposto a chi ne faceva parte ritmi inutilmente massacranti. Senza peraltro aver smesso neanche ora. “Altroché”, dice. “(Già nel 2015) sentivo che non ero più io; la pressione, e i progetti uno dopo l’altro, e lo stress di fare tutto più grande, più veloce, più sofisticato, meno caro. Ma in questo modo finisci per fare cose di cui non sei affatto convinto mentre il marketing ti dice di non preoccuparti, che verranno bene in foto. E allora inizi a domandarti: ma io chi sto vestendo, le foto o le donne? Qual è la nostra missione? È stato a quel punto che ho detto basta; mi sono preso del tempo e ho iniziato a osservare le donne nella loro vita quotidiana. Non credo nelle categorie, nel “mercato cinese” e nel “mercato americano”: le donne sono persone universali che nutrono le stesse ambizioni per sé e per le loro famiglie; tutte si battono per migliorare le proprie condizioni e anche per gestire la pressione della società nei riguardi del loro aspetto, che i social hanno contribuito a moltiplicare. Essere una donna è infinitamente più difficile che essere un uomo, adesso”. Nessuno lo crederebbe, ma nella moda che veste corpi, parlare del corpo è un tabù. “Mentre lavoravo all’idea di A-Z Factory, un’amica mi ha detto: Se le donne di oggi possono modellare il proprio corpo come vogliono, con l’alimentazione, l’attività fisica o la chirurgia plastica, il corpo non è dunque il vestito? E se il corpo è il vestito, il vestito che cosa è?”. 

 

Si era posto le stesse domande mezzo secolo fa Roland Barthes, mentre tentava di inquadrare in un sistema semantico il linguaggio dell’abbigliamento e dell’editoria di moda. Il suo risultato, racchiuso in quel tomo che è il Système de la Mode e che terrorizza gli studenti, fu piuttosto deludente. Elbaz ha provato a ribaltare la prospettiva, “non lavorando su un corpo ideale ma sull’amore e l’accettazione del proprio” perfino nella composizione del team: “Quando ho fondato questa società mi dicevano di ingaggiare solo giovanissimi perché avrebbero capito meglio il mercato di oggi, che l’amministratore delegato deve aver al massimo venticinque anni e cose così. Ma io non sono affatto d’accordo: credo nel valore dell’esperienza, e credo che un team troppo omogeneo non si renda conto degli errori. Così nel mio gruppo ci sono sì dei post adolescenti, ma anche una signora, Micheline, che ha settantasei anni ed era in pensione da tempo. È stata lei a dirmi di non esagerare con i social, perché se vuoi creare un senso di attesa devi essere riservato”. 

 

È la strada che ha intrapreso, su grande scala, anche Bottega Veneta, per volontà del direttore creativo Daniel Lee, e sulla quale molti altri stanno riflettendo: ha senso raccontare sempre tutto a tutti? Trasformare se stessi in piccole, grandi o mediocri celebrities? “Se un tempo compravi un profumo o un accessorio perché lo promuovevano un’attrice o un personaggio famoso, adesso compri solo quello che va bene per te, per il tuo corpo e la tua persona, direi addirittura per il tuo metabolismo”. È il ragionamento che meglio spiega, come abbiamo analizzato di recente anche su Il Foglio, il fallimento della collezione di Rihanna prodotta da Lvmh: la sua straordinaria fama non è stata sufficiente per controbilanciare un problema di qualità e di posizionamento di prezzo troppo elevato. Quindici, dieci anni fa, il gioco avrebbe retto. Adesso non più. Eppure, e nonostante tutte le difficoltà di questa “enorme trasformazione del sistema in atto”, come noi Elbaz è convinto che questo sia un tempo magico di rinascita: “Ricordati che dopo l’Influenza Spagnola, qui a Parigi abbiamo avuto les Années Folles, definizione superficiale di un periodo che fu in realtà di grande sensibilità e innovazione. I Venti sono stati Charlie Chaplin, Hemingway, Joséphine Baker, Jean Cocteau, Madeleine Vionnet, Salvador Dalì, l’affermazione del jazz, che è una musica che suoni con l’intuizione e con gli altri. Il jazz è un dialogo aperto. Ecco, è per questo che ho chiesto ai miei colleghi di mandarmi quei video. È il mio modo di suonare il jazz”. 

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