il foglio del weekend
Abiti da oscar
Il costumista Massimo Cantini Parrini, erede di Piero Tosi, racconta i suoi incubi e le sue ispirazioni per trasformare i film in opere d’arte
Per la nota regola secondo la quale le battute migliori arrivano quando fra intervistato e intervistatore si è ai saluti finali, prima di chiudere la nostra conversazione, il costumista Massimo Cantini Parrini dice che “quando arriverà il mio momento” vorrebbe essere sepolto con tutti i suoi libri, i suoi bibelot e i quattromila vestiti della sua collezione, “come Tutankhamon”. Possiede un rarissimo abito in raso nero e disegni geometrici della Wiener Werkstatte di Emilie Floge e Gustav Klimt, che l’antiquario milanese da cui lo acquistò aveva scambiato per un Poiret (“figurarsi, i Poiret si trovano facilmente”), un abito femminile da cerimonia della metà del 1.600, tinto di azzurro indaco e completo di corpetto, gonna e sottogonna, e appunto infiniti altri esemplari d’epoca o contemporanei per i quali, in caso ne possedeste uno davvero prezioso, è capace di prendere il treno o l’aereo fra un’ora per raggiungervi, con l’autocertificazione già pronta.
Il suo preziosissimo archivio, che ora vorrebbe catalogare come merita, e cioè con professionisti del mestiere, è il primo deposito a cui faccia riferimento per i film a cui collabora. Non compra mai capi danneggiati: niente bruciature, macchie, muffe forse e solo se ne valga davvero la pena, cioè siano cancellabili e il capo di valore museale. Da ragazzino, trascorreva giornate intere alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti sognando il momento in cui avrebbe posseduto una collezione altrettanto preziosa; conserva il suo patrimonio, accuratamente riposto su carta non acida, avvolto in usse di tessuto, fra le case di Firenze, dov’è nato, e di Roma, dove lavora. L’idea di doversene separare è uno dei grandi crucci della sua esistenza. Come molti altri, anche il nuovo candidato italiano ai premi Oscar del 26 aprile, per i costumi del “Pinocchio” di Matteo Garrone, si è goduto parecchio questi successivi lockdown, sfruttandoli per quello che sono, oltre la loro natura di misure di sicurezza sanitaria, e cioè magiche occasioni per studiare e immergersi nei troppi libri acquistati accumulati negli anni e solo sfogliati per gli impegni eccessivi: la nostra aspettativa di lettura supera tragicamente la nostra aspettativa di vita.
“Non sta bene dirlo, ma solo chi non ha interessi si è annoiato in questo anno di clausura forzata”, dice, con la soave crudeltà dell’intellettuale
“Non sta bene dirlo, ma solo chi non ha interessi si è annoiato in questo anno di clausura forzata”, dice, con la soave crudeltà dell’intellettuale che il suo tono di voce, molto musicale e soffice, per contrasto rafforza. Quando, qualche settimana fa, lo chiamammo per complimentarci della nomination, primo italiano candidato per un film italiano dopo molti anni (le grandi doppiette risalgono a tempi di Federico Fellini e Piero Gherardi), se ne uscì con un “viva l’Italia” che sapeva un po’ di circostanza e molto di ironia. Dice che ci sbagliavamo: “E’ stata una grandissima sorpresa, una cosa enorme a cui non ero preparato”. Vorremmo credergli, ma se c’è qualcuno che avrebbe dovuto essere pronto per la chiamata da Los Angeles, quello è lui. Oltre al palma rès nazionale da record (quattro David di Donatello vinti in cinque anni per “Il racconto dei racconti”, “gli Indivisibili”, “Riccardo va all’inferno”,
“Pinocchio”, e attualmente è candidato per “Miss Marx”), lo scorso anno Cantini Parrini ha vinto in rapida successione l’European Film Award per “Dogman” ed è entrato a far parte dei membri italiani dell’Academy Award, insieme con Pierfrancesco Favino, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia Alberto Barbera, le registe Cristina Comencini, Maria Sole Tognazzi e Francesca Archibugi, oltre a un manipolo di montatori, animatori, truccatori e alla collega Nicoletta Ercole, simpaticissima e volitiva signora che nel 2017 fece il grande gesto d’amore di trasformarsi in produttrice del documentario diretto da Anselma Dell’Olio su Marco Ferreri, regista di riferimento della sua lunga carriera: insieme vinsero un David di Donatello l’anno successivo. Nell’ambiente, Cantini Parrini è noto come “il divo” e non potrebbe essere altrimenti, con quella faccia da attore del cinema muto che “chiama” la macchina da presa, gli occhi chiari e ombreggiati da ciglia lunghissime modello Rodolfo Valentino, e certi piccoli vezzi e ostinazioni da star, compresa una vaghezza sull’anagrafica che a noi, in realtà, non interessava affatto, ma che ci è stato precisato essere “molto confusa e sbagliata” su tutti i siti in cui si scrive di lui.
Studia Moda e costume da quando acquistò il primo vestito della sua collezione, a tredici anni: “Ero convinto di aver scovato un tesoro”
In qualunque punto del cammin di vita sua si trovi, Cantini Parrini ci è arrivato comunque compiendo tutti i passi giusti. Nipote di una sarta, Silvana Giovannoni, che collaborava con la storica sartoria fiorentina Mazzolini della famiglia di Marco, produttore e regista, è stato studente dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, lo stesso dove Piero Tosi si formò con Ottone Rosai, poi del Polimoda e infine, perché passare da un ateneo onusto di gloria alla fin fine serve, dell’Università di Firenze. Studia Moda e costume da quando acquistò il primo vestito della sua collezione, a tredici anni: “Ero convinto di aver scovato un tesoro. Solo con gli anni ho capito che non era niente di che”. Ricerca, letture (“molto Flaubert, molto Palazzeschi, purtroppo dimenticato”) e volontà di ferro, che è il motivo per cui Tosi lo prese sotto la sua ala, prima di consigliarlo come collaboratore a Gabriella Pescucci, di cui è stato a lungo assistente.
Con Alessandro Lai, costumista di riferimento di Ferzan Ozpetek e della Luxvide, di cui ha firmato anche il “Leonardo” di sceneggiatura sconclusionata ma oggettivamente molto ben vestito ora in onda su Raiuno, Cantini Parrini era anche uno dei pochi a tener testa a Tosi, che invece di adontarsene si divertiva moltissimo ai suoi no e alle sue precisazioni: con i suoi occhi da seduttore, Cantini Parrini arrivava carico di libri, di riferimenti storici, di riproduzioni di quadri, pronto alla battaglia, e ribadiva che avrebbe fatto “non come vuole lei, maestro”, ma come riteneva meglio. “Massimo andrà lontano”, finiva sempre per concludere Tosi, e infatti l’ha nominato nel suo lascito testamentario di cui è esecutore, come scrivemmo qualche mese fa sul Foglio, lo stesso Lai.
“La mia prima ispirazione per i personaggi dell’oltretomba della favola è stata la Cripta dei Cappuccini di Palermo”
Insomma, avete capito da quale scuola di costume e di pensiero provenga Cantini Parrini: da quella filologica, non opposta ma diversa rispetto a quella di libera ricostruzione dei Gherardi, dei Donati, dei Poggioli o di Ellen Mirojnick con i 7.500 costumi realizzati per il serial di Netflix “Bridgerton” che, pur cafoni e inverosimili quanto si vuole (i busti portati a pelle sono un agghiacciante falso storico), hanno però riportato all’attenzione del mondo il ruolo e il valore dei costumisti, perfino come influencer. Costruire un personaggio fittizio è infatti più vicino al mestiere di stylist delle attrici di quanto si creda (dopotutto, che cosa sono i social come Instagram o TikTok se non puro storytelling?), e quindi la generazione dei Cantini Parrini si è trovata all’improvviso al centro di un interesse che, fino a dieci anni fa, non esisteva. Lui affronta il momento d’oro partendo, naturalmente, da poderose ricerche storiche: in particolare “buttandomi nei musei”. Un po’ l’avevamo intuito: alcuni dei suoi ultimi film sembrano uscire direttamente dalla National Gallery e il Musée d’Orsay. Per “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli, quando lo vedemmo alla Mostra del Cinema di Venezia del 2020, ci parve evidente il riferimento al tardo Ottocento inglese, orientalista e certamente colonialista, ma anche ricco di gusto e di intelligenza nella sua presunta “appropriazione culturale”. Non avevamo invece capito, e Cantini Parrini ce lo svela adesso, il riferimento agli anni Settanta del Novecento nei maglioni girocollo indossati da Romola Garai sotto agli scialli paisley. “Li ho rubati a mia madre, femminista dei suoi tempi come la figlia di Marx lo fu dei propri. Mi piaceva l’idea di creare un ponte estetico e intellettuale fra donne di due epoche diverse”. Per “Pinocchio” la ricerca è stata ovviamente diversa, ma così estesa e multiforme da indurre il Museo del Tessuto di Prato, istituzione meritevole che nei giorni scorsi ha presentato il restauro dei costumi della prima assoluta di “Turandot”, fortunosamente ritrovati dagli eredi nel baule della soprano pratese Iva Pacetti, a dedicare loro una mostra e un catalogo dove è stata stampata anche la summa del Cantini Parrini-pensiero: “Vivo nella storia e il presente è già passato; al futuro non penso e forse non mi piace”.
Per “Pinocchio”, Cantini Parrini ha guardato ai Macchiaioli, con le campiture dense e i forti contrasti di luce, ma anche alle illustrazioni della prima edizione del 1883, di Enrico Mazzanti per la Libreria Felice Paggi e che Carlo Lorenzini - Collodi - scelse personalmente, e della successiva, opera di Carlo Chiostri per Bemporad. “Nonostante le molte letture cinematografiche e televisive, nessuno aveva ancora lavorato in profondità su quelle due prime interpretazioni del burattino”, dice, osservando che Garrone gli aveva chiesto di aiutarlo a realizzare “un film per bambini”. Sarà perché a noi Pinocchio ha sempre fatto molta impressione, con la sua drammatica lettura della condizione di indigenza dell’infanzia contadina ottocentesca, (non a caso, Cantini Parrini ha evitato la ricostruzione del “cappellino di mollica di pane”, convinto che un vero papà Geppetto si sarebbe ben guardato dallo sprecare il cibo) non sappiamo quanto i bambini di oggi abbiano capito del lavoro, o se l’abbiano visto davvero. Il mondo che racconta è lontano anni luce da quello in cui la maggioranza di loro vive, e nel quale i genitori tendono a racchiuderli, proteggendoli. I costumi, eccezionali nella loro consistenza al tempo stesso materica o pittorica, reale e astratta, sono stati però il motivo per cui siamo arrivati fino ai titoli di chiusura del film, senza andarcene a metà visione con il cuore gonfio di pena.
Per “Pinocchio” ha guardato ai Macchiaioli, con le campiture dense e i forti contrasti di luce, ma anche alle illustrazioni dell’edizione del 1883
Più che da Pinocchio, unico personaggio vestito simbolicamente di un bel rosso carminio, vivo e vitale e puro, siamo stati colpiti dalla strabordante umanità di mezze calze e mezze tinte, che si mostra crudele e predatoria anche quando è solo antropomorfa come Gatto e Volpe: Cantini Parrini li ha vestiti con abiti aristocratici, ma usati e logori, secondo il parallelismo fra abito e morale che si ritrova fra i personaggi della Comédie Humaine di Balzac e in genere della narrativa ottocentesca. La lezione di Tosi ci è parsa invece evidente nel personaggio della Fata Turchina, la Catherine Earnshaw della letteratura italiana con la sua vocina sottile, le mani candide e il “faccino di cera”: la veste di garza medicale con la collaretta e le ampie maniche, abilmente slamata, che le ha fatto cucire Cantini Parrini, ci ha ricordato l’abito da sposa che il premio Oscar creò, con lo stesso materiale inconsueto, per Isabelle Huppert “Dama delle camelie” nel 1981 e che ora è conservato nell’archivio storico della Sartoria Tirelli, autrice dei costumi del “Pinocchio” insieme con un’altra celebre sartoria romana, Peruzzi.
“In realtà, la mia prima ispirazione per i personaggi dell’oltretomba della favola è stata la Cripta dei Cappuccini di Palermo: quegli abiti intrisi di polvere, fissati in un tempo metafisico, sempre sul punto di dissolversi un una nuvola di polvere”, dice il costumista, che spiega di trovare “decisamente più facile” lavorare sul costume storico, perfino per un film “che tocca tre momenti diversi della storia dell’abito come il ‘Racconto dei racconti’”, rispetto a quello contemporaneo. Anche perché, lascia intendere, se sulla rilettura storica difficilmente un attore interviene, sull’abito del quotidiano, dell’oggi, tutti hanno da dire la loro, oppure vogliono sperimentare in prima persona. “‘Dogman’ mi ha tolto il sonno”.
Alla Scala