un laboratorio di hackeraggio
La festa d'aria per i cento anni di Gucci
Da Miley Cyrus a Jared Leto. Il centenario coincide con un quadro planetario che spinge al cambiamento e una collezione ufficialmente celebrativa acquisisce un senso nuovo. Con molta sorridente autoironia
Gucci 100, il finale del film
Alessandro Michele sul set del film Gucci 100
Una scena del film Gucci 100
Nella vita di tutti, arriva sempre il momento in cui tocca aprire l’armadio di casa e vedere se sia possibile tirarne fuori qualcosa di buono. Festeggiamenti, scomparse, traslochi. Sapete quelle congiunture ineluttabili, al tempo stesso grevi e cariche di energie, in cui ci si dice che sia arrivato il momento di scegliere, razionalizzare, tenere il buono, valorizzare i ricordi importanti, e pazienza il resto. Se poi questo momento, come nel caso del centenario di Gucci, coincide con un quadro generale, planetario, che spinge al cambiamento, al rinnovamento, alla revisione delle priorità, ecco che una collezione ufficialmente celebrativa acquisisce un senso molto diverso rispetto alle tante altre collezioni di genetliaco che abbiamo visto in questi anni, talvolta anche grandiose, ma prive del senso intimo, personale, di cui invece ognuno di noi ha caricato questa particolare presentazione.
Selezionando dalla memoria e dalla propria esperienza racconti, immagini, flash, parole, “lavorando di hackeraggio” come ama fare, il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele ha coinvolto per qualche giorno stampa e referenti artistici del marchio, da Miley Cyrus a Jared Leto, in un gioco di ri-scoperta del marchio e della sua storia attraverso l’invio a casa di una rivista di quiz sviluppata ad hoc con Keesing Prs Italia e comprensiva di un gioco a chiave per accedere alla visione della collezione online (il critto-Gucci avrebbe mandato in crisi il ceo tanto era complesso, ma in ogni caso suggeriremmo alle università di imporre in sede di esame il “cruciverba sui tessuti”).
Tradotta in capi e accessori, la summa dell’eredità culturale e manifatturiera Gucci ha invece assunto la forma di una collezione ricca di novantaquattro uscite, di un gran giocare di riferimenti fra il mondo dell’equitazione (“senza un riferimento preciso nella manifattura originaria, in realtà: Gucci non ha mai prodotto selle o finimenti, perché debuttò con le valigie. Lo chic del mondo dell’equitazione però sollecitava l’immaginario del fondatore”) e di un film girato con Floria Sigismondi, autrice di infinite fantasmagorie del mondo rock, da David Bowie a Rihanna.
Il racconto visivo parte da una rivisitazione in chiave clubbing della leggenda sul debutto di Guccio Gucci come cameriere al Savoy di Londra (“ho iniziato a sentirne parlare fra i tavoli dei sarti al mio arrivo, molti anni fa, ed è ancora argomento di narrazione”) e chiude, oltre un passaggio buio e una porta che è abbastanza immediato identificare in un “atto di nascita”, sulle immagini di una arcadia classica, cioè pansessuale, pacificata, e su un cuore anatomico coperto di cristalli e lanciato verso il cielo che sì, è in effetti una borsina da sera e sarà certamente uno dei pezzi più ricercati, ma che Michele vuole definire come “ideale passaggio verso chi raccoglierà il testimone in futuro”. C’è molta abilità commerciale, in questa collezione che rivisita in chiave pop, facile e immediatamente intelligibile, glamour come non si vedeva dai tempi di Tom Ford che infatti viene evocato di continuo con la sua “tensione seduttiva”, pezzi iconici come il tailleur pantalone di velluto rosso portato a fama imperitura da Gwyneth Paltrow a metà del primo decennio del Duemila o gli stivali da cavallerizzo che tutta la X Generation ha indossato negli Anni Ottanta.
Ma c’è anche molta sorridente autoironia nella interpretazione fetish del mondo dell’equitazione (parastinchi trasformati in spalline, finimenti in cinghie da pratiche sadomaso, morsetti in grandi decori per bustier di cuoio, cap chiusi e portati come borse a mano). Facile predire che venderà moltissimo, e che i pezzi più ricercati, oltre agli accessori e ai gioielli, incluso un piercing per il naso che, avessimo un’altra età e non ci toccasse un altro ruolo, vorremmo subito, saranno i capi sviluppati dal direttore creativo di Gucci hackerando anche Demna Gvasalia di Balenciaga in una rivisitazione infragruppo degli stilemi e della costruzione vestimentaria di due dei marchi della moda che, fra pochi altri, interpretano davvero quello che Michele definisce l’essenza vitale della moda, cioè il suo essere parte del processo quotidiano dell’esistenza di ognuno di noi: “Il vestito è l’unico elemento che ci accompagni in ogni momento della nostra esistenza, nella veglia e nel sonno, nell’amore e nel lavoro”. La moda come atto generativo in sé, lontano dai riti della stagionalità e dei diktat commerciali, è una teoria che affascina gli studiosi da almeno cinquant’anni.
Se Michele non guidasse un brand che fattura 7,4 miliardi di euro che deve recuperare posizioni dopo un anno di pandemia e non fosse che, senza l’ascesa dell’individualismo e la cancellazione delle norme di abbigliamento per le fasce popolari con l’Illuminismo, non si potrebbe parlare di moda in senso contemporaneo, il suo pensiero meriterebbe uno sviluppo più articolato rispetto a quello offerto da una conferenza stampa via Zoom e una cartella stampa dove cita la filosofa Maria Zambrano per raccontare come “la lunga storia di Gucci non sia racchiudibile all’interno di un singolo atto inaugurale ma che debba invece “prevedere una lunga serie di “nascite interminabili”” e continue rigenerazioni. Il passato, osserva ancora Michele, non è mai consegna inerte e ripetizione dell’immutabile: anzi, “implica necessariamente l’idea del movimento, ed è in questo incessante movimento che la vita sfida il mistero della morte”.
Direbbe Walter Benjamin che per progettare il futuro è necessario cambiare il passato rintracciando, nel suo dispiegarsi, riserve di energia che possiedono in potenza una vita ulteriore. “Nel mio lavoro”, scrive il direttore creativo di Gucci, “faccio appello alla capacità di riabitare il già dato. In questo senso Gucci diventa per me un laboratorio di hackeraggio, incursioni e metamorfosi: un generatore permanente di luccicanze e desideri imprevisti”. A partire da quello che a tutti manca di più: una “festa d’aria”.
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