Troppe norme, consorzi di certificazione, comunicazioni fuorvianti, oltre a consumatori abituati a comprare tanto spendendo poco. E quel bando UE vinto da un’associazione a maggioranza fast fashion che rischia di portare il poliestere ai vertici della scala green. Indagine
Nelle intenzioni originarie, questa indagine avrebbe dovuto essere una seria ma rasserenante classifica delle aziende di moda sostenibili in Italia su criteri ambientali, sociali, economici, cioè di tutte le dimensioni in cui l’industria della moda sta cercando di correre ai ripari dopo aver raggiunto la poco invidiabile posizione di secondo agente inquinante del pianeta. Purtroppo, allo stato attuale della legislazione europea, nazionale e regionale attorno a temi come classificazione delle materie prime, la valutazione dell’impatto energetico, del riciclo e dello smaltimento rifiuti, questa classifica è impossibile. Se poi volessimo aggiungervi la sostenibilità sociale, sfiorerebbe la fantascienza. Troppe le variabili in campo, troppi consorzi e gruppi di interesse di cui molti privati, compresi editori internazionali come BoF, che sono scesi in campo con dichiarate “metodologie proprie” per tracciare un Indice di Sostenibilità di cui ammettono la sindacabilità già nella presentazione, in quanto basato largamente su autodichiarazioni, e nel quale accusano le aziende esaminate di rilasciare troppe dichiarazioni e proclami rispetto alle attività svolte. Manca una univocità di metodo, manca una normativa comunitaria efficace e rigorosa.
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