Il Foglio della Moda
Il nuovo inalienabile diritto alla sciatteria
Polemica su Frances McDormand agli Oscar. Forse è una snob. Forse stiamo annullando anche qui distinzione fra lavoro e vita privata
Frances McDormand ha ritirato l’Oscar senza passare dal parrucchiere e da questa parte dell’Oceano s’è levato un sospirone di sollievo. Perché “Frances è una di noi”. Perché si può andare a un gran galà senza per questo soffrire pene atroci prima durante e dopo. Perché è ora di finirla con l’ipocrita eleganza delle star, con tutto quel loro brillio inarrivabile, quei vestiti francamente surreali, quel perfezionismo ipocrita discriminatorio e sessista – nessuno ricorda che quando Julian Schnabel faceva le passerelle del bel mondo in pigiama, e più che dei suoi film tutti parlavano di come circolava, chiedendosi se fosse schizofrenico?
Frances McDormand è un’attrice magnifica e un’autentica partigiana della resistenza: sposata da trentasette anni con lo stesso uomo, peraltro un regista, e che regista (Joel Coen). Poi, è una snob eccezionale. Spassosa, squisita, eccentrica senza averne l’aria. Raffinatissima. Alla festa del cinema di Roma di due anni fa, attraversò il red carpet trascinando un trench come fosse lo strascico di un vestito – incredibilmente, nessuno si offese: non si urlò alla deminutio della kermesse romana. Agli Oscar dello stesso anno, del resto, s’era presentata con ai piedi un paio di Birkenstock gialle, che Pier Paolo Piccioli aveva personalizzato per lei. Lo snob, abbiamo avuto modo di scriverlo già su questo giornale, non è semplicemente l’altezzoso: più precisamente, è chi desidera fare colpo sugli altri. Lo scrisse, in un j’accuse irresistibile, Virginia Woolf, che non era una signora del popolo, frequentava quasi solo aristocratici e intellettuali, non era “una di noi”.
Non è una di noi neppure Frances McDormand, anche se lo hanno scritto, detto e pensato in molte e molti, quando ad aprile scorso hanno visto la foto di lei che, con in mano l’Oscar, e i capelli arruffati e ingrigiti, sorride di fianco alla regista Chloé Zhao, che l’ha diretta in Nomadland, per il quale ha a sua volta vinto l’Oscar per il miglior film e la migliore regia, prima donna di origini asiatiche a essere premiata dall’Academy.
Quella di McDormand era la terza statuina della sua carriera, e lei s’è presentata alla cerimonia con addosso un morigeratissimo Valentino nero con bordo di piume e una forcina per capelli. Non un filo di trucco. Chloé Zhao, invece, indossava un Hermès beige e serio e un paio di sneaker bianche. Aveva i capelli raccolti in due trecce. Non un filo di trucco nemmeno lei. Nella foto che le ritrae insieme, Zaho guarda McDormand che guarda l’obiettivo. Sorridono. Struccate, spettinate, felici. Due amiche che hanno vinto una gara qualsiasi. Il Corriere della Sera ha scritto: «Se c’è una vincitrice in questa edizione degli Academy Award è la libertà delle donne di apparire finalmente come vogliono (sì, quella che gli uomini hanno sempre avuto) senza essere giudicate inappropriate». Vediamo #smashpatriarchy in tutto, siamo fatte così.
Sul New York Times, Vanessa Friedman ha scritto invece che la cerimonia di questa novantatreesima edizione degli Oscar è stata simile in modo quasi preoccupante a quelle del mondo di prima (prima del Covid, prima dell’assassinio di George Floyd), «a parte le scarpe sovversive di Chloé Zhao e Questlove, che indossava Crocs dorate sotto un completo nero». Per lei, si è piuttosto respirata aria di restaurazione: ha scritto che anziché una rinascita, il red carpet è stato un ritorno alla solita formula «con grandi brand e star che li amano», che non ci sono stati discorsi o simboli che abbiano evidenziato niente di quello che è successo quest’anno, così che quasi tutto, moda inclusa, è stato all’insegna dell’evasione.
Vogue America ha ricordato che tra il vestito di Zhao e la linea creativa di Hermès c’è unità d’intenti perché la direttrice creativa della maison a marzo aveva detto di voler disegnare abiti per una donna sicura di sé e che «Hermès is about resilience»; e Zhao, dal canto suo, si è sempre vestita come le andava, ha sempre evitato di parlare di guardaroba, ogni tanto la si è vista in giro in salopette. Anche Chloé Zhao non è una di noi, infatti vince premi Oscar che noi non vinceremo mai visto che nella vita facciamo un altro mestiere e non si capisce perché le sue scarpe da ginnastica sul red carpet ci facciano tirare un sospiro di sollievo, visto che a noi di fare un red carpet non capiterà mai nella vita e quindi non saremo noi a giovarci del beneficio di quest’altra fondamentale rivoluzione del costume al ribasso.
Dice: è il principio, l’idea che una donna debba vestirsi non come le va ma come ci si aspetta che faccia, che debba agghindarsi in un modo specifico, che non possa essere bella che in un modo finto e artefatto, che debba incaricare uno stylist di non farla finire in uno di quei pagelloni che le riviste patinate compilano dopo ogni evento mondano più o meno rilevante, quando ti danno 3 e mezzo se hai osato andare in jeans a fare la spesa – sì, quei pagelloni esistono ancora, specie all’interno di settimanali e mensili che in copertina mettono “corpi non conformi” ovverosia taglie 41 e mezzo.
Il punto interessante dell’entusiasmo che la foto di McDormand e Zhao, però, ha poco a che fare con il bodypositive e la sua strumentalizzazione a opera di brand, editoriali o meno che siano. È più affascinante notare come l’irresistibile snobismo di McDormand sfugga completamente all’esegesi iconografica della sua apparizione. Quello che secondo il Corriere è un gesto da antidiva è, invece, l’esatto contrario. La distanza tra noi e McDormand non è dimezzata bensì triplicata dalla sua assenza di trucco e dai suoi capelli arruffati: per lei una grande occasione vale l’altra, per noi no. Nel rifiuto del crisma c’è sempre il rifiuto di chi ci ha creduto, un vezzo distintivo, una presa di distanza: tu, sciocca ingenua ragazza che credi ancora nei pizzi e nelle paillettes, come sei primitiva quando pensi che per onorare un rito, un luogo, un consesso, ci si debba conformare a uno stile codificato. Non è irrisione del contesto, ma del sogno: davvero tu popolana desideri ancora scendere le scale con uno strascico plissettato e chilometrico e ai piedi 24 centimetri di tacchi?
In Sex and The City, quando Carrie arriva a Parigi e conosce la figlia del suo fidanzato russo e le dice che non vede l’ora di vedere la tour Eiffel, quella la guarda con commiserazione, con occhi da gatta che sembrano dirle: davvero ti piace quella patacca, davvero ti accontenti di così poco, ti ci vuole una cartolina per emozionarti?
Quella insofferenza per il buon costume nella quale da sempre intravvediamo un lusso aristocratico, è adesso percepita come una grande lezione di libertà, un esercizio d’autonomia e, naturalmente, un passo importante verso l’affermazione del proprio peso specifico come misura di tutte le cose. Una specificazione non superflua: niente di tutto questo è agito premeditatamente da McDormand, men che meno lo è la confusione tra non conformità e non conformismo che, probabilmente, è un vizio solo e soltanto della nostra ricostruzione.
Quando Audrey Hepburn mandò all’aria il matrimonio con James Hanson, durante le riprese di Vacanze Romane, chiese alle sorelle Fontana, che glielo avevano confezionato, di donarlo a una giovane sposa che non avesse i soldi per pagarsene uno. Dopo una specie di mini concorso in radio, il vestito se lo aggiudicò Amabile Altobello, contadina. Era il 1960. Con quel gesto, Audrey diventava una di noi – delle noi dell’epoca, naturalmente, che sognavano moltissimo, prima ancora di una vita e un matrimonio felici, una festa di nozze indimenticabile, da ricche, da facoltose. Donando il suo vestito, diceva: sogniamo le stesse cose, non c’è niente di inarrivabile. Prima ci si riconosceva simili nell’ambizione, adesso nel cedimento.
A monte del voler pensionare i tacchi e le divise dell’eleganza, c’è un meccanismo simile a quello che presiede l’annullamento della distinzione tra lavoro e vita privata? Di certo, quelle che prima degli Oscar spettinati sapevano che un vestito “non è luce, è solo un attimo di gloria”, se mai dovessero venire invitate a una cerimonia dell’Academy, ma pure al buffet del Premio Strega, sarebbero felici, per una sera, di indossare qualcosa di simile alla festa che hanno dentro al cuore.
Aboliteci tutto ma non le stelle di Broadway, vestite come la Rogers: in fondo, è a loro che pensiamo, quando vogliamo sognare in pace, senza porci obbiettivi.
Non è un caso che il libro autobiografico di Natividad Abascal y Romero-Toro, nata a Siviglia nel 1943, nota come “Naty Abascal”, ex duchessa di Feria, musa di Valentino Garavani, modella e insomma quel che fino all’avvento degli influencer e della loro scintillante sfacciataggine si definiva con reverenza “socialite internazionale”, stia per uscire in questi mesi di incertezze estetiche. “The eternal muse inspiring fashion designers”, edito da Rizzoli New York da dove proviene anche la foto, scattata nel 2007 a Roma da Mario Sierra, è stato l’occasione per chiederle quali siano le età della donna nella moda e se questo mondo abbia allargato i propri orizzonti. Ci ha detto che l’età conta meno rispetto alla capacità di vivere ogni momento, e che “la moda è un compagno che ti aiuta a esprimere non solo la tua personalità, ma anche a interpretare il momento storico”. Ci è venuto in mente il controverso spot che girò nel 1974 con Salvador Dalì per promuovere l’Alka Seltzer: lui le dipingeva addosso gli organi interni, lei restava immobile.
Una meraviglia.
Alla Scala