(foto Unsplash)

il foglio della moda

Per i libri di moda è un nuovo boom

Antonio Mancinelli

Sono bastati cinque anni per capire che quanto si pubblica sui social è altamente deperibile. E così per i testi legati alla moda c'è un nuovo mercato

Nel decennio Ottanta-Novanta venivano pomposamente chiamati coffee table books. Imponenti volumi autocelebrativi da tenere sul tavolino di pregio, meglio se aperti con studiata distrazione sulla doppia pagina più cromaticamente intonata a divano, tappezzerie e assortite masserizie autoriali, che col tempo finivano per diventare monumenti cartacei negli scaffali o plinti di vassoi e posacenere (quando nelle case del ceto alto e poco riflessivo era ancora permesso fumare). Avevano rilegature cucite a mano, estensioni spaziali afflitte da gigantismo, custodie in seta, pagine dalla grammatura di ponderale gravitas, equivalente al peso intellettuale del celeberrimo autore impresso sul frontespizio, che poi si scopriva aver firmato due o tre stiracchiate paginette e finita lì; però, corroborati da apparati iconografici degni di un incunabolo medievale o da catalogo di Biennale, perché destinati a non lettori che preferivano guardare le figure. Raramente acquistati, poco sfogliati, frequentemente regalati durante le festività natalizie poiché inseriti nell’orrida categoria delle “strenne”, a commissionarli erano imprese di moda di lusso (qualsiasi cosa significhi “lusso”), di gioielli, di design, di automobili: un segno di raggiunto potere aziendale e un emblema dello status di chi poteva comprare i loro prodotti. 

Il resto è noto: l’avvento del web, dei siti, dei social e la velocizzazione della quotidianità anche nei suoi cerimoniali più sacrali, come lo shopping di grande spesa, quei libroni li ha abbandonati. Il sistema della moda si è convinto che le stories su Instagram, le pagine Facebook, gli eventi memorabili, i défilé in luoghi inaccessibili ai più, le influencer assoldate al solo scopo di farsi attaccapanni pubblicitari, tutte contrattualizzate magno pretio, rimpinguassero con dinamismo contemporaneo i fatturati, senza mediazioni pseudoculturali.

 

Ed è quello, a essere mancato. Perché il digitale non basta: è altamente deperibile, non permette alcun tuffo sotto la superficie né l’intreccio con discipline altre, non concede la compresenza di giudizi derivanti da ambiti diversi. E toh, è rispuntato il contenuto, che sia narrazione dell’heritage o illustrazioni di esperimenti inediti. Da pochi anni l’editoria sur commande è rifiorita come nelle poesie delle elementari facevano i bucaneve durante l’inverno. Non c’è praticamente alcuna sfilata di Gucci che non sia accompagnata da libri ad alto contenuto sapienziale, dall’antologia fotografica dell’artista visivo politicamente molto corretto fino a bizzarre connessioni con fumettari molto cool e molto underground come quelli della rivista Frankenstein o con lo staff di Domenica Quiz per giocosi passatempi realizzati ad hoc. Ogni fine d’anno, la maison Dior saluta gli addetti ai lavori con tomi fotografici stampati divinamente, che scelgono la biografia per immagini per mano di grandi autori, ospitando testi di assoluta profondità: a uno ha collaborato il filosofo più osannato della nouvelle vague del pensiero, Emanuele Coccia, eccellenza italiana che sforna best-seller come La vita delle piante e insegna alla prestigiosa École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Valentino, nella persona di Pierpaolo Piccioli, vara progetti d’avanguardia, come quello dedicato alla collezione per questa estate, presentata a settembre 2020 in un opificio milanese abbandonato. Modalità di partecipazione: blended, come le lezioni in DAD, causa Covid: pochi ospiti in presenza, milioni di spettatori in streaming. Il libro Valentino. Collezione Milano è firmato da due nomi altisonanti della cultura più adeguata al momento: Liz Johnson Artur, dedita a immortalare solamente (o quasi) componenti della comunità black planetaria e Bernardine Evaristo, scrittrice ascesa alla devozione mondiale con il bellissimo romanzo Ragazza, donna, altro (Edizioni Sur).

 

Più recentemente, Piccioli ha dato alle stampe Valentino Garavani VLOGO Signature, curato dal nuovo enfant gâté della critica di moda italiana, il giovane Jacopo Bedussi. Raccoglie l’interpretazione della leggendaria “V” della griffe romana da parte di sedici riviste di nicchia, compulsate da accaniti fashionisti e di limitatissima distribuzione: cosa che ne accresce il prestigio. «No, non possiamo definire queste pubblicazioni l’equivalente dei coffee table book», avverte Bedussi. Che però, sornione, continua: «Da un lato c’è sicuramente il bisogno di qualcosa che rimanga, così possiamo pavoneggiarci nelle riunioni su Zoom con scaffali ben nutriti di feticci cartacei; dall’altro mi chiedo se, avendo le sfilate digitali sottratto al rito del défilé fisico quell’aura di avvenimento riservato agli eletti, questi oggetti da sfogliare, praticamente introvabili in libreria e donati solo al cerchio magico di chi lavora nella moda, non siano altro che metafore di ciò che è il perfetto contrario di quel che va propagando la moda di rango: l’inclusività. Sono prodotti esclusivi perché stampati in pochissime copie e, allo stesso tempo, metafore di momenti da cristallizzare in “cose”. Però, dubbi maliziosi a parte, costituiscono effettivamente strumenti di approfondimento e di conoscenza. Non hanno solo la funzione di esaltare il creativo ma, nella struttura compositiva e contenutistica, rappresentano dispositivi di ricerca: tant’è vero che, come ogni studente di moda sa, se vuole trovare notizie o riflessioni, non le trova sul Web. Gli investimenti su questo tipo di contenuti sono i più sinceri e onesti, da parte delle griffe. Forse la moda si sta rendendo conto che, per essere apprezzata, non deve più comportarsi alla Francesca Bertini, piangendo disperata perché nessuno la capisce. Ha pensato per troppo tempo al prodotto e troppo poco al modo in cui raccontarlo». 

Stefano Peccatori, direttore generale libri Mondadori, conferma la tendenza: lo scorso anno è stato «ottimo» per i libri su commissione da parte dei brand di abbigliamento, design, automobili: costo medio di ogni libro con distribuzione internazionale garantita, 80mila euro. Gli fa eco Pietro Della Lucia, direttore delle pubblicazioni dell’editore Skira: «Confermo quest’impressione. Personalmente non credo che il digitale non basti: più semplicemente, è passata la sbornia dei grandi numeri consentiti dai social. Soprattutto le aziende del lusso, negli ultimi tempi, si sono trasformate da fornitrici di prodotti a macchine culturali. Il libro aiuta questo nuovo genere di realtà su due fronti. Il primo: la possibilità di entrare nel merito e quindi dimostrare che non è tutto apparenza. Il secondo: li aiuta a trasportarli nel tempo. Dopo cinque anni, un libro è ancora attuale e può essere materia di studio, dopo poche ore un video o un post hanno già esaurito la carica magnetica di coinvolgere tantissime persone». E la fuffa editoriale di venti o trent’anni fa? “Parlo per la casa editrice per cui lavoro: non si può più incentrare la nostra forza di editori sulla potenza delle immagini, ma dobbiamo nutrire il libro aziendali di contenuti forti. In passato, sono stati editi troppi album visivi. Si parte dalla definizione del progetto legato a un marchio con la presenza del curatore, figura sempre più fondamentale in questo genere di operazioni. Una carrellata di trecento immagini non serve a restituire il messaggio della missione di un’industria, anche meno blasonata di altre più note, ma che magari racchiude una storia imprenditoriale strabiliante. Le faccio un esempio di un nostro volume per i 50 anni di Lamborghini: abbiamo sfidato l’azienda a farsi leggere dall’esterno, perché l’automotive in genere riscuote l’interesse di un numero ristretto di appassionati. E quindi abbiamo costruito un piano di cinque temi, dal cinema alla comunicazione, chiamando esperti non solo legati all’argomento: la storia era stata affidata a Philippe Daverio, non raccontando la vicenda del marchio, ma quella del Paese. Il libro è andato molto bene, meglio delle previsioni, anche nei bookshop. Qualche anno dopo ricevo una telefonata dal capo della comunicazione di Lamborghini che lasciava l’azienda: era felice perché dei suoi dieci anni di lavoro e quindi anche del suo operato era soltanto nel libro, non nel grande avvenimento che, su momento, aveva riscosso enorme successo. «Quello è andato, quel che ho lasciato di me è in queste pagine. Di cui sarò per sempre il co-curatore». 


Come fu che Betony Vernon scatenò Il coté erotico di Piccioli

Per la moda che di suo venderebbe sesso e giovinezza, e solo in seconda battuta vestiti, è abbastanza singolare la scarsità di incursioni nell’erotismo, quasi che ogni pulsione umana dovesse sublimarsi in un vestito oppure – e per guardare al periodo più ipocrita e dunque più feticista di ogni altro che è il Vittorianesimo - in stivaletti e guepières. Dunque, non ci ha stupiti più di tanto l’idea di Valentino, brand in forte evoluzione strategico-concettuale, di associarsi alla più famosa stilista di bijoux erotici, Betony Vernon, per una edizione speciale della linea Rockstud, opportunamente battezzata “Alcove”, e di accompagnarla con una nuova edizione personalizzata del bestseller “The boudoir bible”, illustrato da François Berthoud. I rockstud, dopotutto, sono dettagli abbastanza fetish, e conosciamo parecchia gente che si farebbe frustare con i lacci delle celebri décollétée della collezione. Per questa collaborazione, il direttore creativo Pierpaolo Piccioli li ha sublimati in un paio di stivaletti da Belle Otero Anni Duemila e in certe borsine eleganti che, all’occorrenza, potrebbero fungere benissimo anche da armi da difesa. Dopo aver osservato il tutto a lungo, ci è parso utile chiedere un parere sul progetto alla stessa Betony Vernon che ci ha detto di considerare “l’alcova un catalizzatore erotico”, progettato per “potenziare i sensi”, oltre a sentirsi “allineatissima alla filosofia creativa di Pierpaolo”. Qualcosa ci dice che nessuno guarderà più il designer con gli stessi occhi.

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