Foglio della moda - interviste via Zoom
L'importanza di non fare cose inutili
Chiacchierata con Francesca di Carrobio, amministratore delegato di Hermès Italia sul valore del lusso, il sostegno al territorio e lo spirito calvinista sul quale sì, Weber aveva ragione
Poi finiremo per concordare sul fatto che la generazione Z sia infinitamente più aperta a soluzioni variabili su scelte e acquisti rispetto alle due che la precedono, che il vintage sia una scelta opportuna e preziosa e la cura dell’oggetto una naturale conseguenza del suo valore, tanto che qualunque oggetto di Hermès possediate, potrete farvelo riparare, ma diciamo che questa non avrebbe dovuto essere un’intervista. Cette ci n’était pas une pipe. Quando, qualche settimana fa, ricevemmo una telefonata che ci chiedeva se avessimo voglia di fare due chiacchiere con l’amministratore delegato di Hermès Italia Francesca di Carrobio, credevamo volesse anticiparci qualche informazione sulla riapertura della boutique di via Montenapoleone potenziata di due piani e di molte altre iniziative per mettere la clientela a suo agio, cosa che avverrà il prossimo 9 luglio con quella “force tranquille” che si addice tanto al momento storico quanto alla stessa maison (non riusciremo mai a chiamare Hermès brand, benché gente come Jean-Noel Kapferer abbia costruito attorno a questo modello di fare impresa un paio di libri di marketing).
Insomma, pensavamo di dover stare noi da una parte dello schermo col bloc notes e qualche domanda pronta, lei dall’altra parte che parlava di quei 950 metri quadrati che faranno di Milano la boutique più importante d’Europa. Abbiamo capito che voleva essere uno scambio di opinioni vero quando lo schermo si è acceso su Francesca di Carrobio in caftano da una spiaggia siciliana che ci ha chiesto perché mai prendessimo appunti, visto che lei voleva invece saperne di più sull’inserto che state leggendo e sul momento in generale. Quando arrivò in Italia da Bruxelles fresca di laurea, molti anni fa, voleva un marito siciliano e vacanze assolate. Entrò in Hermès dall’ufficio stampa, dopo una prima esperienza in Deborah e il compito, non facile, di collocare quel brand anche ottimo, ma indubitabilmente mass market, accanto a Dior e Chanel. È il numero uno di Hermès in Italia dal 2004; insomma ha avuto tutto, compresa la direzione generale di Hermès Grecia, che anche sul fronte sole ha da dire la sua.
In Hermès, è abbastanza noto, non esiste l’ufficio marketing: linee e prodotti nascono “quando siamo pronti”, e le idee si sviluppano in apparenza per gemmazione naturale. Si va in giro, si curiosa, si parla, ci si pensa su, si prende un caffè e ci si confronta. “Il tempo non va compresso”. Oggetti e capi “devono avere una loro ragion d’essere e una loro funzione”. Nulla deve essere inutile, nulla va buttato. Tutto questo sembrerebbe in effetti una raffinatissima strategia di marketing della negazione e della privazione, diciamo il genere di strategia che si combina perfettamente con la lista di attesa della Birkin, non fosse che qualche anno fa, quando ancora l’economia circolare non era diventata una locuzione da aperitivo, incontrammo a una cena romana una delle eredi della famiglia Dumas Hermès, Pascale Mussard. Presentava un suo progetto di recupero e trasformazione degli scarti di lavorazione di pellami e sete in deliziosi piccoli oggetti, Les petites H, che per la prima volta venivano offerti al pubblico come esperienza da vivere con un artigiano della maison (la cosa finì ovviamente in una lunga lista d’attesa per la quale i romani si batterono fieramente).
Madame Mussard ci intrattenne con il racconto di un episodio della sua infanzia che non abbiamo mai dimenticato, e cioè che a casa sua non si buttava mai il pane secco. “Si mangiava fino all’ultima briciola, talvolta trasformandolo in pietanze”. In pratica, aggiunse allegra, gustava pane fresco una volta ogni quattro giorni. Il segreto per cui Hermès è ormai da più di un secolo il benchmark di ogni lusso era racchiusa lì, nell’aneddoto su una baguette rafferma e nel disprezzo tutto calvinista per lo spreco e il mancato rispetto del lavoro che invece, come teorizzava Max Weber senza mai essere davvero sconfessato, sono il mezzo per valorizzare l’individuo e la società nel suo complesso. Mentre le altre aziende distruggevano periodicamente le rimanenze di magazzino per non inflazionare il mercato, pratica che peraltro a breve in Francia sarà vietata per legge, Hermès lavorava su quello che di Carrobio definisce in tutta serenità “il nostro ruolo nella formazione”.
Quando le si chiede che cosa pensi del tentativo della moda di evolversi in maestra di pensiero e ispiratrice morale, non cita movimenti sociali, ma “la sostenibilità dei luoghi” come espressione di sostenibilità sociale: «Spesso diamo vita ad atelier in zone a rischio di dispersione, favorendo l’inserimento di giovani locali e contribuendo per quanto possibile al radicamento sul territorio e alla sua difesa. Penso per esempio alla pelletteria di Louviers, in Normandia, che inaugureremo a breve: è la prima manifattura del cuoio a energia positiva e zero consumo, che produrrà più energia di quella che consumerà, con pochissime emissioni». Negli atelier, specifica, non lavorano mai più di duecentocinquanta persone “per mantenere una dimensione umana”, favorendo la conoscenza e il senso di comunità: spesso, gli artigiani provengono da altri settori e da altre esperienze di vita: «Diamo loro la possibilità di reinventarsi, garantendo la formazione e l’inserimento in atelier anche ad età non più verdissime».
Nella grande boutique di Venezia, i collaboratori coltivano un orto sul terrazzo; vorrebbe che qualcosa di quello spirito si moltiplicasse a Milano dove, fra uffici e vendita, una grande cucina, sale break e una doppia terrazza, lavoreranno circa cento persone: «Mi piacerebbe che un giorno alla settimana, magari il giovedì, il negozio si trasformasse in un luogo di incontro per i nostri clienti». Allo scopo sono stati usati materiali ma anche arredi di artigianalità locale. Pensava nello stesso modo, quasi due secoli fa, Aristide Boucicaut, il fondatore del Bon Marché che avrebbe ispirato il personaggio di Octave Mouret nel Al paradiso delle signore di Emile Zola: il negozio come luogo di scambio e di incontro, in forma rilassata. D’altronde, sul ruolo delle superfici di vendita negli anni dell’affermazione dell’e-commerce si stanno interrogando un po’ tutti, cercando alternative apparentemente moderne che, in realtà, sono molto antiche e attengono alla vocazione umana per la socialità.
Dice di Carrobio che “il cuoio”, che è traduzione diretta del termine cuir e in francese significa pelletteria, rappresenta circa la metà delle vendite e nel nuovo negozio avrà grande spazio. Le cuir è uno degli argomenti sui quali Hermès ha dato più da pensare al settore nell’ultimo anno, dopo aver annunciato che in autunno lancerà il modello Victoria in Sylvania, un ibrido di tessuto dalla “mano camoscio” ottenuto dal Fine Mycelium, il prodotto finale della lavorazione delle radici di alcuni funghi noti per la crescita rapida. Fino ad oggi, nessun marchio del lusso (sorry, Stella McCartney non è lusso) aveva adottato l’alternativa vegana alla pelle animale che poi, essendo scarto di lavorazione alimentare, al momento è quanto di più sostenibile esista e che non osiamo immaginare il tasso di inquinamento che raggiungerebbe il pianeta se si smettesse di lavorarla. Nei primi Anni Duemila, Hermès aveva tentato un esperimento similare con un derivato del caucciù: non si era ancora in epoca di sostenibilità ma Jean-Louis Dumas, l’uomo geniale e visionario che guidò l’impresa di famiglia per trentacinque anni, aveva preso a cuore le sorti di una comunità dell’Amazzonia che viveva di estrazione di gomma, e per qualche anno tentò di lanciare i classici modelli Hermès in una sorta di pellame di caucciù, senza mai riuscire però a cancellare gli indesiderabilissimi effetti collaterali del materiale, che col tempo si opacizzava e acquisiva una patina grigiastra, oltre ad emanare un odore che difficilmente si sarebbe potuto definire gradevole.
Le borse richiedevano inoltre una manutenzione che all’epoca era difficile far accettare al cliente. Per la cronaca, la storia prese poi delle derivazioni davvero inattese: da una parte determinò la grande moda delle finte Birkin in plastica colorata che furoreggiò per almeno due estati, e dall’altra finì per coinvolgere l’attuale presidente della Lega Serie A, Paolo Dal Pino, all’epoca numero uno di Tim Brasile, che raccolse da Dumas, già pronto a lasciare l’azienda per ragioni di salute, il testimone e la responsabilità per quel villaggio, iniziando a sua volta una produzione di borse sportive appoggiandosi a Braccialini. L’altro giorno, cercando una valigia, abbiamo trovato una di quelle sacche “Amazon Life”: il cuoio-di-gomma dopo quasi vent’anni si è stabilizzato, ma allora I tempi non erano certamente maturi per un mercato che a quei tempi era in pieno boom fast fashion, e dunque l’iniziativa finì dopo breve tempo. Ora, Sylvania è una scelta che di Carrobio ritiene fosse necessario compiere. Dice che i primi risultati sono stati molto soddisfacenti, gli occhi fissi sul cliente del futuro: “La voglia di conservare e curare un capo nasce anche dalla capacità di riconoscerne la qualità e la manifattura”. Nonostante quel che scriveva Braudel, Weber un po’ di ragione l’aveva, via.
Marketing
Ossessione collettiva fino a pochi anni fa (“l’ha detto il reparto marketing”), ora in calo verticale di consensi, a favore delle collaborazioni artistiche, dei colpi di genio ma anche del semplice buon senso. “Quelli del marketing” vengono ormai consultati dopo, e devono mettere ordine.
Manutenzione
Fino a dieci anni fa, l’unica manutenzione possibile era quella di se stessi: “high maintenance woman” era la donna che spendeva fortune in creme e massaggi, la “femmina di lusso” dei tempi di Pitigrilli; poi si buttava tutto il resto. Adesso che la generazione Z compra vintage e ripara tutto, i boomer sono molto disorientati
Alla Scala