il foglio della moda
Quanto rende l'inclusione
I nativi digitali rappresenteranno la metà del mercato del lusso entro il 2025, ma sui diritti civili e la tutela dell’ambiente non transigono già adesso. Gli advisor suggeriscono di adeguarsi
Prima sono stati i millennial, molto idealisti, a terrorizzare i capi del marketing delle aziende, che dopo decenni di comunicazione a senso unico si sono trovati a giocarsi il posto di lavoro quando non sapevano se e come rispondere sui social alle critiche su temi ambientali e sociali. Poi è arrivata la generazione Zeta, i nativi digitali, nati dopo il 1995, che è passata dalle parole ai fatti. Danno praticamente per acquisito il rispetto per il pianeta e sono molto attivi in tutto il mondo nelle campagne per i diritti civili. Consumano e sono influenzabili, certo. Qualcuno teorizza che la loro stessa esistenza sia scandita sin dalla nascita dal ritmo degli acquisti on line ed è per questo che sono nei radar delle aziende. Ma pensano anche in modo creativo e fuori dagli schemi e durante la pandemia sono riusciti, attraverso la loro piazza virtuale preferita Tik Tok, a guidare l’ascesa di piattaforme di rivendita di abbigliamento usato e hanno spinto (qualcuno dice forzato) le ultime collezioni di moda verso l’annullamento della differenza di genere. Una recente ricerca realizzata da Bain&Company in collaborazione con la piattaforma Depop spiega che è in atto un cambiamento di paradigma rispetto alle generazioni più anziane che definisce la Zeta “come un gruppo distintivo di persone che, nonostante le loro differenze di cultura, lingua o razza, si sente solidale con la complessità e la diversità umana”.
Claudia D’Arpizio, responsabile a livello mondiale del settore moda e lusso di Bain e membro del Global Diversity, Equity e Inclusion Council del board della società di consulenza strategica, è un’attenta osservatrice di questo mondo. "La generazione Zeta sta decostruendo le norme di genere binarie mostrando sensibilità per le persone che non desiderano conformarsi ai canoni comuni – dice. – Così, quando si parla di genere, non distinguono, ma mettono insieme questo e quello in un continuum di possibilità".
I nativi digitali, insieme con i millennial, rappresentano il 30 per cento dei consumatori del mercato del lusso e si prevede supereranno il 50 per cento nel 2025. Praticamente un megatrend che sta spingendo sempre più produttori a dichiarare che fino ad oggi sono state le norme della società ad aver determinato i confini del modo di vestire maschile e femminile. Qualche settimana fa l’emittente americana Cnbc, in previsione del Pride Month di giugno, ha realizzato un ampio servizio in cui, dopo aver interpellato un gran numero di analisti ed esperti, arrivava alla conclusione che “la moda gender fluid è qui per restare”. Ma quali sono i rischi che corrono le aziende su un terreno che rischia di essere scivoloso, considerando le diversità culturali dei paesi a cui appartengono i giovani della generazione Zeta? Per quanto il ddl Zan stia facendo discutere in Italia, nessuno si sognerebbe di proporre una legge come quella ungherese che ha suscitato sdegno in Europa e nessun governo, nei paesi occidentali, vieterebbe l’acquisto di prodotti perché una campagna promozionale offende l’orgoglio nazionale, come è accaduto con Dolce&Gabbana in Cina. Ma non è sempre così. "È insita nella natura della moda la capacità di rispondere alle diverse esigenze e necessità – ribatte D’Arpizio. – È chiaro che c’è un tema di attenzione ai rischi, più legato alla comunicazione che ai prodotti: ciascun brand deve trovare il proprio punto d’incontro tra l’interpretazione della domanda della Generazione Z e la modalità di comunicazione rispetto al mercato e alla cultura che approccia, tenendo in grande considerazione le sensibilità del consumatore. Il rischio più grande sarebbe però proprio di quello di avere un pensiero unico e non multiforme, perché ci impedirebbe di capire le sensibilità nascenti e la complessità culturale di un mondo che è globale per visibilità, ma locale per attenzione".
Gli spazi di mercato che si stanno aprendo sono enormi. Piccole griffe come The Phluid Project, Les Girls Les Boys, Tomboy X e Wildfang stanno facendo: sono aziende che abbracciano la diversità, l’uguaglianza e l'inclusione e i loro sforzi si riflettono nel marketing. Insomma, un vestito veste anche i pensieri: questo è il mantra. Secondo Giovanni Faccioli, fashion&luxury market leader di Deloitte, lo stile genderless è destinato a crescere. ma non a scapito della tradizionale offerta per uomo-donna perché si tratta di un modo di cambiare ed innovare la moda, un ambito che è sempre stato tra i primi a sposare le battaglie sociali ed etiche. «Vero anche però – aggiunge Faccioli – che i produttori potrebbero registrare una riduzione della numerosità delle linee, dei modelli e della produzione in generale. Tuttavia quello che è importante considerare, anche nell’ottica del consumatore finale e dei suoi valori, non è solo la sostenibilità economica, quanto la sostenibilità a 360° che, una volta adottata, porta un beneficio anche dal punto di vista economico all’azienda». Insomma, qualche rischio nello sposare i valori della generazione Zeta i produttori lo corrono ma, come osserva uno studio di McKinsey, non c’è altra scelta se si vuole attrarre gruppi di consumatori giovani, che tra l’altro sono molto abili nell’individuare gli artifici di marketing e non si lasciano ingannare facilmente. Quindi, se esiste un rischio, dice McKinsey, è di non apparire autentici nella comunicazione. Per D’Arpizio, quello che a volte si fa fatica a comprendere è che se un adolescente maschio posta un video mentre si mette lo smalto sulle unghie non vuol dire che non sia eterosessuale, ma solo sta lanciando un messaggio di libertà personale e magari di solidarietà per altri suoi coetanei che vengono discriminati per le loro tendenze sessuali. "Questo punto è importante perché vuol dire che l’azienda che sposa questi valori non si sta rivolgendo a una nicchia di mercato ma a tutto l’universo della generazione Zeta".
Ma i nativi digitali riusciranno a toccare il cuore del capitalismo com’è successo ai millennial con l’ambiente visto che ormai non si trova più un fondo disposto a investire in un’impresa che non sia green? "Lo ha già toccato – osserva D’Arpizio – I fondi di private equity fanno sempre più fatica a investire in aziende di moda che non rispondono a ciò che la generazione Zeta cerca, innanzitutto l’inclusione della diversità e della moltitudine di generi e personalità. Il business va di pari passo con l’avanzamento sociale e culturale e se c’è un’intera generazione che ha preso coscienza della complessità umana questo è destinato a cambiare le cose".