Anche la couture it's coming Rome. Nei guai la londinese Ralph&Russo

In attesa di Valentino a Venezia, tutti guardano alla capitale italiana, da Dior a Fendi. Ma il più contemporaneo resta Armani

Fabiana Giacomotti

E dopo l’amministrazione controllata a marzo, è arrivato lo spettro della liquidazione a luglio e l’ultimo tentativo di salvataggio da parte di un fondo americano poche ore fa. Esizialissima Brexit, perfido Covid, che in Inghilterra ha potuto dilagare meglio e con più efficacia che altrove per troppi mesi, tagliando le gambe anche a Ralph&Russo. Se possiamo confermarvi che l’unica vera maison di couture femminile che fosse stata fondata a Londra negli ultimi anni ha rischiato di dover chiudere per sempre i cinque piani del palazzetto di Mayfair e le due boutique di Londra e Montecarlo, è perché amici couturier con mire espansionistiche hanno ricevuto richieste di lavoro da parte di sarte e tagliatrici locali, disposte perfino a cambiare paese.

 

Ora che nel brand ha immesso una forte dose di liquidità il fondo americano Retail ECommerce Ventures, nome pochissimo promettente che prefigura un rapidissimo scivolone nell’area mass market, è possibile che di Tamara Ralph e Michael Russo se sentirà sempre meno parlare sui red carpet, con grande soddisfazione delle vere maison di couture, che da anni vedevano comparire sulle passerelle del duo veri e propri plagi delle proprie creazioni. Per anni, un amico consulente finanziario ci ha scongiurati di andare a vedere sfilare (“sono occasioni divertentissime”) questa congerie di finti Chanel, Dior e Giorgio Armani, destinati alla clientela che, a dispetto delle possibilità economiche, non avrebbe mai accesso ai nomi di prima fila perché la couture è un mondo di difficile accesso per chi non sia invitato a farlo, e conosciamo gente che, nonostante abbia acquistato accessori per decine di migliaia di euro, non ha ancora ottenuto un invito alla sfilata e alla visita in atelier.

 

In questo complessivo e apparentemente rapido declino della predominanza culturale inglese che si manifesta in mille modi, dalla confusione accademica delle sue due università più prestigiose sui temi della cancel culture al calcio alla moda (non sarà un caso se anche un manager di raro fiuto come Marco Gobbetti abbia ritenuto arrivato il momento di lasciare Burberry), c’è invece da segnalare l’ottima tenuta della couture, l'alta moda a cui tutti guardano in questo momento di recupero almeno ufficiale dell'eccellenza manifatturiera, sia in Francia sia in Italia e soprattutto il “coming Rome” di quasi tutti i brand.

 

Pur nell’uso importante di tessuti corposi e di origine nordica (i tweed, le lane pesanti perfette sui cappotti) dice per esempio di aver guardato alla Sala dei Ricami di Palazzo Colonna Maria Grazia Chiuri nella sua collezione couture inverno 2021-2022 per Dior, in cui il “linguaggio sovversivo del ricamo” si è espresso nel progetto performance di un enorme pannello creato con l’artista francese Eva Jospin. Ha sfilato al Palazzo delle Esposizioni, a pochi metri dalle opere della Quadriennale, Antonio Grimaldi, che nonostante si sia visto sospendere le sollecitazioni a sfilare a Parigi come “membro invitato” da parte della Chambre Syndicale de la Couture, sempre più gelosa delle proprie prerogative e poco disposta a lasciare spazio a stranieri di piccole dimensioni, ha aumentato le vendite anche in Cina. E ha lavorato a una ricostruzione di Roma anche l’inglese Kim Jones per Fendi nello stesso Palazzo della Civiltà dove il brand ha sede, realizzando con Luca Guadagnino un film di inquadrature e scorci prospettici davvero interessanti, soprattutto per la relazione con gli abiti di Fendi che non sono mai fluidi, mai leggeri, e conservano tutti, inspiegabilmente visti i cambi di designer degli ultimi anni, una propria evidentissima gravitas.

 

In attesa della sfilata-kermesse di Valentino alle Gaggiandre dell’Arsenale di Venezia, il 15 luglio, che promette di essere una riflessione culturale-artistica sul valore degli atelier più diversi, restano da segnalare due rinascite couture fin troppo rispettose del verbo dei fondatori (Demna Gvasalia per Balenciaga comunque molto interessante visto che la maison non faceva sfilare alta moda dal 1968, quando alla notizia che Cristobal Balenciaga chiudeva, Mona von Bismarck si chiuse a sua volta in camera al Fortino di Capri per tre giorni a piangere, Pieter Mulier per Azzedine Alaia ci ha colpite molto di meno) ma soprattutto va commentata la sfilata che al momento, fra molti dei nostri colleghi e per molte clienti, è stata la più gradita, ed è quella di Giorgio Armani.

 

Pochi giorni prima di compiere ottantasette anni, Armani ha fatto sfilare all’Ambasciata Italiana a Parigi la collezione che più raccontava del bisogno di levità, di leggerezza, di positività di questo momento. Una sfilata-zeitgeist che scivolava su organze di seta rosa tenue sulle quali la luce si rifletteva come su uno specchio d’acqua; una collezione che accarezzava non le nudità del corpo, ma quelle dell’anima dopo un periodo così duro. Nessuna pesantezza, nessun trucco sui volti, nessuna pettinatura, che per un uomo abituato a caratterizzare ogni uscita con estremo rigore è suonato come una fortissima dichiarazione di intenti. Un Armani così libero, così pacificato, così attento alle evoluzioni della natura umana e al mutamento delle sensibilità, non ci era ancora capitato di vederlo, ed è stata una bella scoperta.

 

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